Nel 2021 l'Italia presiederà il G20 nel mezzo di una crisi economica e sociale tra le peggiori degli ultimi anni. Qual è il futuro della governance internazionale e che ruolo hanno le donne nella definizione di obiettivi globali come salute, clima e pari opportunità. Ne parliamo con Paola Subacchi
È notizia di questi giorni che oltre 40 milioni di professionisti del settore della salute, medici e non solo, hanno scritto una lettera ai leader del G20 per chiedere un massiccio investimento nella sanità pubblica ma anche un impegno serio ed efficace contro l’inquinamento e il cambiamento climatico. Del resto, chi se non uno dei più autorevoli organismi di governance internazionale dovrebbe preoccuparsi di trovare risposte e soluzioni condivise a una pandemia, e alla crisi economica che ne sta scaturendo, che per definizione non ha confini geografici? Abbiamo fatto alcune domande relative al ruolo del G20 in questo momento storico e nel prossimo futuro a Paola Subacchi, economista, scrittrice e commentatrice del funzionamento e governance del sistema internazionale e monetario. Docente di economia internazionale alla Queen Mary University of London e all'Università di Bologna, e nei consigli di amministrazione di diverse aziende, Subacchi ha una lunga esperienza di consulenza e partecipazione all’interno del G20. Ha, inoltre, da sempre riservato un interesse di ricerca alle questioni di genere, che l’ha portata a essere tra le ideatrici e fondatrici del W20, gruppo di engagement del G20 volto a portare avanti le istanze relative alla parità di genere.
Professoressa, un organismo di governance internazionale, come è il G20, dovrebbe essere particolarmente prezioso proprio in momenti come questi, caratterizzati da una crisi di portata globale. Com'è andata fino a oggi?
Il G20 purtroppo risente di una doppia crisi che chiamerei esistenziale e di leadership. La crisi esistenziale è in corso da parecchi anni, più o meno dalla fine dell’emergenza legata alla crisi finanziaria globale del 2008 – che per noi in Europa si è protratta fino al 2012. Fu proprio l’emergenza finanziaria a spingere gli Stati Uniti a convocare il vertice del G20 a Washington nel novembre 2008 – prima di questa data il G20 era il forum dei ministri delle finanze dei paesi del Group of 20. Una volta passata la crisi il G20 non è riuscito a trasformarsi da crisis committe a un gruppo di lavoro e di coordinamento internazionale sui grandi temi economici globali. Per certi versi, e probabilmente a causa dell’eccessivo allargamento dell’agenda, il G20 ha perso efficacia e impatto. Su questo si innesta la crisi politica e di leadership causata dallo scarso coinvolgimento e deliberata ostilità da parte degli USA. La pandemia e la conseguente crisi economica internazionale dovrebbe aiutare il G20 a ritrovare la propria voce, ma finora non è stato così.
Qual è il futuro e quali sono le potenzialità dell’approccio multilaterale nella nostra contemporaneità, in cui sembrano spopolare e raccogliere consensi proposte politiche tutte improntate al nazionalismo, al sovranismo e al my country first?
L’approccio multilaterale è critico per il dialogo e il coordinamento delle policy a livello internazionale. Il rischio del bilateralismo – un approccio che piace molto all’amministrazione Trump – è nel potenziale sbilanciamento nei rapporti negoziali. I paesi più forti sia economicamente che geopoliticamente tendono a prevalere su quelli più deboli. Per il commercio internazionale è importante che le regole siano decise multilateralmente e che le dispute siano arbitrate da istituzioni multilaterali super partes – almeno in linea di principio, sappiamo che in pratica le cose vanno in maniera diversa. E le istituzioni multilaterali e i forum come il G20 consentono ai paesi più piccoli di prendere parte al processo decisionale – e anche di avere peso attraverso alleanze strategiche. Senza la struttura offerta dalle istituzioni economiche multilaterali – che furono create alla fine della seconda guerra mondiale – il rischio è un gioco a somma zero per l’acquisizione di risorse e quote di mercato.
Nel 2021 sarà l’Italia a presiedere il G20. Un anno centrale, evidentemente: l’emergenza sanitaria avrà lasciato sul campo un aumento del debito pubblico in molti paesi, primo tra tutti il nostro, moltissime aziende chiuderanno, ci sarà un aumento della disoccupazione e, in generale, si concretizzerà una crisi economica e sociale di dimensioni forse mai viste dal 1929. Secondo lei significherà un ritorno all’austerity? Che ruolo può giocare l’Italia nell’orientare l’approccio dei 20 più potenti paesi del mondo?
Mi auguro che non ci sia un ritorno alla austerità e che i paesi del G20 non commettano lo stesso errore commesso nel 2010, quando si ritenne necessario ridurre la spesa pubblica per incidere su posizioni debitorie che si erano espanse a seguito del salvataggio del sistema bancario. (Una decisone che peraltro spezzò il consenso all’interno del G20) Ci sono due temi critici per l’agenda internazionale post-Covid19. Il primo è come fare ripartire la domanda – per far ripartire l’attività economica – e quindi pensare a investimenti infrastrutturali, spesa pubblica mirata e di impatto e così via. Il secondo è la questione del debito pubblico, e specificamente la mancanza di un sistema/procedura internazionale per la ristrutturazione del debito di paesi fortemente indebitati e sull’orlo della bancarotta. In questi giorni stiamo assistendo, ancora una volta, alle convulsioni dell’Argentina e del debito che non riesce più a gestire. I paesi, come le aziende, non possono ripartire economicamente se hanno livelli di debito troppo elevati.
Lo sherpa italiano che segue G7 e G20, Piero Benassi, ha dichiarato che le quattro parole chiave con cui l’Italia intende caratterizzare la propria presidenza sono: public health, people, planet, prosperity. Al tavolo con Donald Trump e Xi Jinping, quale margine ha il nostro governo di trovare un accordo su temi dove le convinzioni sono tanto diverse?
I temi sono forti e di grande importanza, e l’Italia ha molto capitale politico a livello internazionale che può essere speso per creare consenso attorno a temi scottanti come l’ambiente e i cambiamenti climatici. Bene quindi usare termini neutrali come people e planet. A essere troppo ecumenici c’è però il rischio di risultare vaghi e non riuscire a ottenere impegni concreti da parte del G20. Sarà importante nei prossimi mesi definire l’agenda includendo obiettivi concreti in base ai quali misurare l’impegno dei G20 e monitorare come i singoli paesi traducono gli impegni presi in misure di policy.
Lei è tra le fondatrici del Women-20 (W20), uno dei gruppi di interesse che sono coinvolti nel meccanismo decisionale del G20, focalizzato sulla prospettiva della condizione femminile in questi paesi e nel mondo. Può raccontarci com’è nato il W20, come funziona concretamente e quali sono i maggiori risultati ottenuti in questi anni?
Il W20 nasce formalmente ad Ankara nel settembre 2015 ma le basi per la sua fondazione risalgono alla presidenza australiana del G20 (2014) e partono addirittura da un evento co-organizzato dall’Australian National University (ANU) e Chatham House nel novembre 2013. In quell’occasione, insieme alla collega Susan Harris Rimmer, abbiamo avuto la possibilità di confrontarci con il team incaricato dell’organizzazione della presidenza dell’anno successivo. A settembre 2014, a Canberra, abbiamo organizzato il primo Policy Forum on Gender and the G20, che ha di fatto preparato il terreno per il W20, sia dal punto di vista della costruzione dei contenuti e delle proposte sia nell’aggregazione della rete di persone che a vario titolo hanno poi partecipato al lancio del W20. Il principale risultato ottenuto in questi anni è sicuramente aver contribuito in maniera significativa a rendere il tema della parità di genere uno dei punti discussi a livello internazionale. Il W20 è un gruppo relativamente giovane, che ha molte potenzialità ma che avrebbe bisogno di diversi correttivi per funzionare al meglio ed esercitare una più forte influenza sul processo decisionale del G20. Le questioni da affrontare sono molte, è impossibile trattarle in breve in un’intervista: per chi fosse interessato, suggerisco la lettura del paper scritto a quattro mani da me e da Susan Harris Rimmer, proprio per analizzare la genesi, il lavoro e le prospettive del W20.
C’è il rischio concreto che la crisi scaturita dall’emergenza Covid-19 comporti un arretramento significativo per la situazione delle donne, almeno nel nostro paese. In primo luogo per via del carico di cura che, con la chiusura delle scuole e in assenza di una serie di servizi, è nella maggior parte delle famiglie ricaduto in maniera sproporzionata su di loro. Ma anche perché le donne già prima della pandemia erano in una situazione di maggiore debolezza sul mercato del lavoro: spesso assunte con contratti precari, a part-time. In un momento di contrazione del lavoro è verosimile pensare che saranno le prime di cui si farà a meno. E i primissimi dati sembrano confermarlo: il 72% delle persone tornate a lavoro il 4 maggio sono uomini. Mentre i settori maggiormente colpiti dalla crisi, tra cui i servizi e il turismo, hanno un’alta occupazione femminile. Da economista, reputa questo rischio realistico? E quali misure potrebbero essere implementate per evitare che si concretizzi?
Purtroppo, e lo vediamo anche a livello del G20, i paesi con mercati del lavoro poco dinamici, tendono a penalizzare determinati gruppi come donne e giovani. L’Italia ha un tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro intorno al 41% (fonte: Banca Mondiale-ILO, 2019, percentuale di donne impiegate rispetto al totale delle donne di età superiore ai 15 anni), che la pone in coda ai paesi avanzati. A questo si aggiungono vincoli legati alla mancanza di infrastrutture sociali come asili, scuole a tempo pieno e altre forme di sostegno alla famiglia. È auspicabile che le misure post-crisi vengano declinate in modo gender-oriented, altrimenti faremo un passo indietro.
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