Negli ultimi cinquant'anni le straniere sono diventate protagoniste dei flussi di migrazione in Italia e hanno contribuito a costruire un pezzo importante della storia del paese. Eppure i dati parlano soprattutto di un misconoscimento. Serve un cambio di prospettiva
Protagoniste
della migrazione
Le donne sono state tra le prime a connotare l’Italia come un paese d’immigrazione, rivelandosi fin dall’inizio per il loro ruolo attivo di migranti, autonomo dalla presenza maschile, e anche per una preponderanza quantitativa. Le donne in Italia arrivano numerose, da sole, già dagli anni ’70, attratte dalla crescente domanda nei servizi domestici e animate da un progetto migratorio teso all’emancipazione, sul piano economico come su quello della condotta sociale e personale.
Sono le cosiddette pioniere dell’immigrazione italiana, lavoratrici soprattutto, ma anche studentesse ed esuli: una presenza dinamica, che davanti alla noncuranza dei servizi, delle istituzioni e della politica, si associa, si sostiene, si auto-promuove e dà il via a un flusso costante, e continuamente rinnovato, che rappresenta ancora oggi una delle principali caratteristiche dell’immigrazione nel nostro paese.
Già durante il censimento del 1981, quando gli stranieri in Italia erano poco più di 200mila, le donne ne rappresentavano la maggioranza (53%), e anche a distanza di quarant'anni, a fine 2021, si attestano al 51%: 2,6 milioni in rappresentanza di 192 diverse nazionalità, tra cui prevalgono romene, albanesi, marocchine, ucraine, cinesi, filippine, moldave, indiane, polacche e peruviane, pari al 66% del totale.
La forte diversificazione delle provenienze aiuta a evidenziare la varietà dei loro percorsi migratori e, allo stesso tempo, permette di rilevare la prevalenza delle migrazioni femminili autonome in molti gruppi nazionali, alcuni dei quali protagonisti dell’intero scenario dell’immigrazione italiana e tutt’oggi declinati prevalentemente al femminile. È il caso della collettività ucraina, composta per il 77,8% da donne, di quelle polacca dove le donne sono il 74,7%, moldava dove sono il 66,1%, peruviana il 57,6%, romena il 56,9%, filippina il 56,7%, come pure capoverdiana dove le donne rappresentano il 65,4%, etiope il 58,7%, ed ecuadoriana il 55,8%.
A riprova dei lunghi percorsi di inserimento, tra le non comunitarie quasi 7 su 10 (68,4%) hanno un permesso di soggiorno di lungo periodo e durata illimitata, un dato che sale oltre questa soglia in quasi tutti i gruppi europei e in quelli asiatici, africani e latino-americani di più lunga tradizione migratoria al femminile (come il capoverdiano 82,8%, l’ecuadoriano 80,8%, l’etiope 72,1% o il filippino 72,4%).
Una presenza radicata, eterogenea e in continua ridefinizione, dunque, il cui protagonismo rappresenta una costante dell’immigrazione straniera in Italia, in termini storici, quantitativi e anche di azione individuale. E, allo stesso tempo, una presenza su cui continua a gravare un diffuso disconoscimento.
Se i percorsi delle pioniere sono rimasti a lungo invisibili, il forte aumento degli arrivi registrato a partire dagli anni ’90, con la parallela crescente presenza di vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale e di donne ricongiunte, si è tradotto infatti nella diffusione di visioni stereotipate e fortemente stigmatizzanti. Le immigrate diventano così una presenza marginale, sottomessa e passiva, secondo narrazioni che persistono ancora oggi e continuano a condizionare non solo lo sguardo dell’opinione pubblica, ma lo stesso approccio politico-istituzionale.
Nonostante il loro attivismo, la consapevolezza con cui si muovono nel mondo del lavoro e nella società, i ruoli essenziali che ricoprono nei contesti di inserimento, la condizione specifica di donne migranti, in particolare nel caso italiano, continua dunque a non essere messa pienamente a fuoco. Infatti, o viene assimilata all’esperienza maschile da letture delle migrazioni che mantengono uno sguardo solo apparentemente neutro rispetto al genere; oppure viene schiacciata su rappresentazioni riduttive ed escludenti che ne inquadrano i percorsi in termini passivizzanti, se non del tutto vittimistici, di fatto misconoscendone l’autonomia e la capacità strategica e riproponendo in questo modo logiche di marginalizzazione e subordinazione.
Rileggere l’immigrazione italiana dalla parte delle donne, assumendo una prospettiva di analisi che ne evidenzi i percorsi di affermazione oltre le vulnerabilità, rappresenta quindi una scelta di campo che mira innanzitutto a restituire alle migranti il protagonismo che è loro proprio. E, allo stesso tempo, è un posizionamento che intende richiamare l’attenzione sullo specifico e molteplice portato di discriminazione e svantaggio che ne condiziona i percorsi, relegando queste donne in posizioni subalterne determinate da sistemi socio-economici che restano gerarchizzati in base al genere, al background migratorio, alla provenienza geografica e culturale, alla condizione socio-economica.
Emblematico di tale situazione è il loro inserimento nel mondo del lavoro, rispetto al quale continuano a essere ostacolate nelle possibilità di accesso e penalizzate nelle opportunità di carriera e crescita professionale, con ricadute negative sulla loro condizione economica e sociale complessiva.
Gli ultimi dati che abbiamo raccolto in un volume per il Centro studi e eicerche Idos, e l'Istituto di Studi Politici S. Pio V, ci dicono che nel 2021 le donne, pur essendo il 51% dei residenti stranieri, scendono al 42% tra gli stranieri occupati; e ancora, sono il 52% degli immigrati disoccupati mentre, al contempo, quelle occupate risultano sovraistruite in oltre 4 casi su 10.
Del resto, le lavoratrici straniere si concentrano per 87,1% (quasi 9 su 10) nell’ambito dei servizi, dove ricoprono principalmente mansioni di cura, assistenza, accudimento, pulizia; e però, allo stesso tempo, sono tra le meno tutelate dal welfare, anche a causa di requisiti spesso escludenti o, comunque, molto restrittivi. Il risultato è che, se sono madri, sono assorbite principalmente dal lavoro di cura e familiare e, di conseguenza, accedono molto meno al lavoro rispetto alle connazionali che non hanno figli: il tasso di occupazione delle donne straniere di 25-49 anni con figli in età prescolare è, infatti, del 46,4% a fronte del 77,9% di quelle che, pur avendo la stessa età e la cittadinanza straniera, non hanno figli.
È dunque evidente che sussiste un forte legame tra occupazione e impegno familiare, due aspetti che, vissuti dalla parte delle donne, entrano decisamente in collisione e vedono le donne e le madri – straniere ma anche italiane – tanto più escluse dal lavoro retribuito quanto più investite dei compiti di cura e gestione della famiglia. La loro supposta debolezza e vulnerabilità, insomma, non sono frutto di un dato naturale, né esclusivamente di culture altre e “arretrate”, ma sono strutturalmente prodotte dalle carenze del welfare e dalla mancata parità di genere a livello sociale e familiare.
Ancora una volta le migrazioni ci parlano di noi, fungono da specchio del paese in cui si insediano e della sua organizzazione sociale. Nel caso italiano, la condizione sociale e occupazionale delle donne immigrate smaschera il grande vulnus irrisolto del paese, quello della riproduzione sociale e della sua ripartizione tra uomini e donne, come pure tra famiglia e stato.
In assenza di un avanzamento sostanziale in questi aspetti fondamentali del vivere comune, ciò che è accaduto fino a ora è che, con l’ingresso diffuso delle donne autoctone nel mercato del lavoro retribuito, tutta l’area delle funzioni di riproduzione sociale e della vita non è stata ripensata in termini di condivisione allargata tra i generi, ma solo spostata al di fuori dei confini nazionali, esternalizzata su scala globale, con uno slittamento dal piano interno a quello internazionale. Ma una siffatta catena globale della cura non smuove i nodi –appunto – irrisolti, piuttosto li ripropone sotto nuove spoglie, spostando la questione da un piano di giustizia riproduttiva a livello nazionale a un piano di giustizia riproduttiva globale, tutta ancora da riflettere e affrontare.
Oggi, il nuovo ordine internazionale del lavoro affida alle donne immigrate la gestione della cura e delle funzioni domestiche e, anche dopo anni di vita in Italia e a fronte di titoli di studio spesso elevati, continua a mantenerle forzatamente bloccate nei livelli più bassi del mondo del lavoro e della società. Non mancano ovviamente le eccezioni, sempre più numerose e di cui il volume pubblicato da Idos e Istituto S. Pio V testimonia largamente, ma sono eccezioni che, come si è soliti dire, confermano la regola.
Questa, purtroppo, continua a parlarci di donne che con sacrifici, costanza e impegno hanno costruito e rafforzato la propria autonomia e che hanno contribuito a fare la storia del nostro paese, ma che non vi trovano ancora lo spazio e il riconoscimento che meritano. Nella nostra ricerca risuona costante l’ambivalenza che connota la donna migrante, la quale porta in sé, al contempo, la pratica positiva della ricerca di una propria affermazione, di un miglioramento di vita per sé e i propri cari, ma anche l’esperienza negativa della continua esposizione a ruoli subalterni, svantaggiati e di minorità.
E invece le migrazioni femminili andrebbero raccontate soprattutto per la forza di donne che hanno alle spalle – e davanti a sé – progetti migratori autonomi. Che già dagli anni ’90 si sono organizzate in associazioni e gruppi di pressione, lottando e conquistando spazi di visibilità e cittadinanza. Che contribuiscono al benessere della collettività assicurando servizi altrimenti assenti o carenti. Che producono immaginari femminili e culturali innovativi e lontani da cliché e stereotipi. Donne che continuano a fare ancora la storia del paese.
È emblematico quanto raccontato, in chiusura del volume che abbiamo curato, da quattro donne della prima immigrazione italiana – Maria Marta Farfan, Maria de Lourdes Jesus, Félicité Mbezele, Pilar Saravia – che, ciascuna a suo modo, ricordano la fatica della migrazione e dell’inserimento in Italia, ma anche le tante conquiste raggiunte, individualmente e, ancor più, in forma collettiva. Tutte individuano come uno spartiacque nelle loro esistenze la prima legge sull’immigrazione del 1990, della cui emanazione si sentono – giustamente e a pieno titolo – artefici, avendo attivamente contribuito, con il loro impegno sociale e politico, al clima che l’ha alimentata. A loro va il nostro ringraziamento, per aver costruito un pezzo di storia italiana e per avercelo ricordato.
Riferimenti
Centro Studi e Ricerche Idos, Istituto di Studi Politici S. Pio V, Le migrazioni femminili in Italia. Percorsi di affermazione oltre le vulnerabilità, a cura di B. Coccia, G. Demaio e M.P. Nanni.