Sono di piccole dimensioni e concentrate nel settore dei servizi, anche se negli ultimi tempi le aziende guidate da imprenditrici sono un po' aumentate in settori più maschili. Ma il turnover è elevato e aumentano solo quelle avviate da straniere. Tutti i dati e le caratteristiche delle attività in proprio delle donne, che spesso sono l'unica alternativa a un mercato del lavoro da tempo asfittico e che le penalizza
Sono piccole e crescono poco, ma hanno un tasso di natalità alto, e spesso sono l’unica via per sfruttare saperi, esperienze passate, coltivare sogni o solo per sopravvivere al lungo inverno del mercato del lavoro. È il quadro che si ricava mettendo insieme i dati dell’ultimo censimento dell’industria e dei servizi dell’Istat, che per la prima volta offre uno spaccato di genere dell’imprenditoria italiana, insieme ad alcuni elementi più congiunturali offerti dalle analisi Unioncamere.
L’approfondimento Istat sulle imprese con 3-9 addetti (una larga parte delle microimprese, dimensione prevalente nel sistema produttivo italiano) permette di aprire uno spaccato interessante sulle imprese al femminile. Si scopre così che 151.725 imprese di questa dimensione sono gestite da donne. Le imprese in cui l’imprenditore di riferimento è donna presentano le percentuali più elevate in Valle d'Aosta, Sardegna e Umbria, le regioni in cui la presenza di imprese è molto bassa rispetto alla media nazionale, ma in termini assoluti le imprese rosa si trovano soprattutto in Lombardia (quasi 27mila imprese, pari al 17,7% del totale di genere), in Veneto (circa 14mila imprese rosa, 9% del totale) e nel Lazio ed Emilia Romagna dove le imprese condotte da donne sono poco meno di 14mila ciascuna, pari all’8,7% delle imprese femminili di questa dimensione.
L’imprenditoria femminile in Italia è ancora per lo più concentrata nelle attività di servizio: circa un’impresa su tre in questo settore è gestita da donne, con percentuali che arrivano a oltre la metà (54,4%) nelle altre attività di servizi, al 42,2% nell’istruzione, al 33% nelle attività di noleggio e agenzie di viaggio e al 31% nei servizi di alloggio e ristorazione. Per contro, la presenza delle imprenditrici è ancora scarsa nelle attività manifatturiere: solo 19.251 imprese in questa classe di addetti è femminile, contro le 94.199 condotte da uomini (17% del totale) e ancora più scarsa è la presenza nel settore delle costruzioni dove si contano appena 6.161 imprese femminili contro le 93.841 maschili (il 6,2% del totale).
Nel settore dei servizi la presenza femminile negli ultimi anni si è estesa anche a comparti più tradizionalmente coperti dall’imprenditoria maschile. Secondo un recente rapporto Censis Confcommercio (1) il numero delle imprese femminili nelle attività finanziarie e assicurative, di brokeraggio e intermediazione tra il 2009 e il 2013 è cresciuto del 4,3% mentre quelle legate al settore immobiliare sono aumentate del 7,9%. Per contro, nello stesso periodo ha sofferto molto il settore del commercio, che ha perso 18mila imprese rosa (-4,4%).
Nel complesso, durante i lunghi anni della doppia recessione la presenza femminile nell’imprenditoria è rimasta stabile, ma ciò si deve alla forte crescita delle imprese gestite da straniere, che con un +18% ha compensato la flessione di quelle gestite da italiane; grazie a questa crescita, nel 2013 il peso delle straniere è salito all’8,7% del totale, dal 6,9% di quattro anni prima. Le più attive durante il periodo sono state le imprenditrici cinesi, che a fine 2013 con 15mila imprese (+45% dal 2009) sono arrivate a gestire il 17,4% delle imprese femminili straniere, seguono le romene e le marocchine.
Le aziende femminili presentano in generale una struttura di governance più elementare rispetto a quelle maschili, e una dimensione in media molto ridotta: alla fine del I trimestre del 2014 il 65,6% delle imprese femminili iscritte alle camere di commercio presentava la forma giuridica di “impresa individuale”, e solo il 17,8% quella di società di capitale, e nel complesso sia il ritmo con cui avvengono le nuovi iscrizioni sia le cessazioni nel caso delle imprese rosa sono molto più marcate che per quelle maschili.
La dimensione (in media molto ridotta) delle imprese femminili e l’elevato turnover, soprattutto nell’ultimo anno, hanno portato molti a ritenere che la creazione di un’impresa sia per molte donne una via semi-obbligata di fronte a un mercato del lavoro che spesso le penalizza, sia in termini di occupazione, sia di impiego delle capacità acquisite durante la formazione scolastica e universitaria. L’idea (peraltro comune anche in altri paesi) sembra confermata dalle caratteristiche delle nuove imprenditrici, ossia di quelle che hanno avviato un’impresa “vera” nel corso del 2013 (2). In effetti, nella maggior parte dei casi si tratta di donne giovani (3): sei su dieci hanno meno di 40 anni, e il 25% circa meno di 30; nel caso degli uomini le percentuali corrispondenti scendono al 50% e al 22,8%. Il livello di istruzione delle nuove imprenditrici è mediamente alto: circa il 21% è in possesso di una laurea (contro il 16% dei nuovi imprenditori uomini), mentre il 46,7% ha un diploma di scuola superiore, una percentuale che si ferma invece a 44,7 nel caso degli uomini.
Le esperienze maturate nella vita passata dalle donne che nel corso del 2013 hanno avviato un’impresa sono profondamente diverse da quelle maschili, almeno nel loro peso. Nella maggior parte dei casi (18,8% contro il 14,3% degli uomini) le donne vengono da un’esperienza precedente che le ha viste impiegate in un’altra azienda, ma soprattutto arrivano dal lavoro casalingo (13,4% contro lo 0,2% degli uomini) e dalla disoccupazione (16,1%, una percentuale che arriva all’14,1% nel caso degli uomini). Più elevata rispetto alla componente maschile (6,5 contro il 4,9%) è inoltre la percentuale di ragazze che ha avviato un’impresa da studente. Sono le donne stesse a confermare l’idea che l’avvio di un’impresa rappresenti spesso l’unica via per entrare nel mondo del lavoro o per valorizzare le proprie competenze: in una indagine ad hoc condotta da Unioncamere il 19% dichiara che avviare la nuova impresa è stato un modo per trovare un primo o un nuovo sbocco lavorativo, che l’impresa è stata avviata in seguito alle difficoltà di trovare un lavoro dipendente stabile (13,7%) o per valorizzare competenze ed esperienze professionali acquisite in passato (13,3%). Il desiderio di conseguire un successo personale o economico conta più che per gli uomini (13,3% contro 8,4%), come pure la volontà di sfruttare un’idea innovativa (4,6% contro il 2,8%). La conoscenza delle opportunità del mercato invece è più una prerogativa maschile: tra i nuovi imprenditori uomini il 19,5% lo segnala come l’elemento principale della costituzione dell’impresa, contro il 16,7% delle donne. Dai dati relativi all’ultimo anno si rileva inoltre come la percentuale di uomini che ha investito cifre rilevanti nell’avvio dell’impresa (oltre 100mila euro) sia superiore (2,1% contro 1,8%), ma nel caso degli uomini risulta superiore anche la percentuale di quelli che hanno investito cifre molto basse (meno di 5 mila euro) pari al 54,2% contro il 44,8% delle donne. Queste ultime sembrano aver prediletto la fascia intermedia, che ha richiesto un investimento iniziale da parte loro compreso tra i 5 e i 30mila euro.
(1) Censis Confcommercio, Osservatorio sull’evoluzione dell’imprenditorialità femminile nel terziario 2009-2013, 9 maggio 2014.
(2) Per impresa vera Unioncamere intende un’impresa che non risulta frutto di trasformazione di attività esistenti dovute a cambiamenti della forma giuridica, di localizzazione, scorpori o nuove acquisizioni.
(3) Osservatorio sull’imprenditoria femminile, indagine condotta nel I trimestre del 2014 e riferita a un campione di 18.600 imprese attive nate nel 2013 rappresentativo delle 246mila imprese attive iscritte nel corso del 2013.