Qual è lo stato dell'arte dell'imprenditoria sociale femminile in Europa? Ha risposto WEstart, progetto della European Women's Lobby, che ha mappato le realtà di dieci paesi
WEstart: l’imprenditoria sociale
femminile in Europa
L’economia sociale può essere una strada per raggiungere la tanto dibattuta uguaglianza tra donne e uomini?
Sembrerebbe abbastanza facile rispondere a una domanda di questo tipo, semplicemente perché ci si aspetta che un’economia definita “sociale” sia già naturalmente predisposta a combattere una delle grandi questioni sociali quale è, appunto, la discriminazione di genere.
Tuttavia, la ricerca scientifica su questo tema è ancora estremamente scarsa, così come lo è la conoscenza del grande pubblico. L’imprenditoria sociale femminile non figura certamente tra i temi più studiati, ma si è coraggiosamente fatta avanti in questi giorni, e l’ha fatto scegliendo il palcoscenico europeo. Lo scorso 11 settembre si è tenuta a Bruxelles la prima conferenza di livello europeo sull’imprenditoria sociale femminile, ultima fase di un progetto della European Women’s Lobby, che si chiama “WEstart” e vuole essere un punto di partenza per aiutare l’imprenditoria sociale femminile a svilupparsi, attraverso la migliore conoscenza di se stessa e attraverso l’influenza che questa sua presa di coscienza può avere sulle politiche di supporto alla leadership femminile in questo settore.
Il principale obiettivo di “WEstart” è stato quello di elaborare uno stato dell’arte dell’imprenditoria sociale femminile in Europa, attraverso la mappatura di dieci Paesi. Un’impresa sociale “women-led” è intesa come un’organizzazione che ha tutte le caratteristiche di un’impresa sociale e, in più, vede la presenza di donne nelle posizioni di leadership e decision-making. Sono state mappate circa 1.000 imprese sociali a dirigenza femminile e sono state intervistate quasi 500 donne. Il quadro ultimato fornisce un’immagine chiara della relazione esistente tra l’imprenditoria sociale, l’uguaglianza di genere e l’emancipazione femminile.
Considerata la novità del fenomeno, non stupisce che la maggior parte delle imprese sociali considerate sia ancora in una fase di start-up (più di 3 su 4 non hanno più di 5 anni di vita). La maggior parte delle intervistate impiega e retribuisce da una a tre persone a tempo pieno, il 32% fattura più di 100.000 euro annui e un piccolo ma significativo 10% fa profitti per più di 500.000 euro l’anno, il che, da solo, fa già crollare uno dei falsi miti riguardo alle donne imprenditrici che rischiano poco e preferiscono rimanere “piccole”. Incredibilmente rilevante è l’esperienza dell’inglese June O’ Sullivan, CEO della London Early Years Foundation, che ha creato un business multimilionario che ruota intorno, niente meno che, agli asili nido.
Queste imprese sono attive perlopiù nei settori della salute e dei servizi sociali, dell’educazione e della ristorazione, e tendono a focalizzarsi su problemi di marginalizzazione ed esclusione.
L’inclusione sociale di gruppi svantaggiati è infatti la missione prediletta dalle donne imprenditrici intervistate. Seguono educazione e formazione, sviluppo sostenibile e ambiente, bambini e giovani, anche se ci sono dei casi brillanti di imprenditoria sociale femminile in settori economici legati ad un tipo di impresa più tradizionale: è il caso dell’italiana Emanuela Donetti, che con la sua start-up tecnologica Urbano Creativo si è affermata tra i pionieri del nuovo progetto delle “smart cities”.
Si sa, però, che la strada verso il successo non è mai facile, e lo è, purtroppo, meno che mai per queste donne. Gli ostacoli più comuni al loro successo sono di tipo finanziario, riscontrabili sia nell’effettiva scarsità di finanziamenti disponibili, sia nelle difficoltà ad accedere a quelli esistenti. Le imprese sociali “valgono meno” di quelle tradizionali in termini di immagine e (presunta) qualità dei loro beni e servizi. Non bisogna poi dimenticare che le donne svolgono un ruolo estremamente importante nei generici “servizi assistenziali”, come la cura di bambini e anziani, ruolo che sottrae tempo ed energie all’attività d’impresa. Spesso, queste donne si scontrano anche con problemi di natura più personale, relativi alla carenza o assenza di un adeguato background economico e ad un’onnipresente mancanza di fiducia in se stesse. Proprio a questo serve la diffusione della conoscenza sull’imprenditoria sociale femminile: a permettere alle informazioni di circolare, alle imprenditrici già affermate di diventare mentori di quelle future e al settore di acquisire una dimensione sempre più importante e strutturata.
E quanto all’essere donna? Sono state raccolte numerose storie di discriminazione persistente da parte di investitori, di altri imprenditori sociali, a dispetto dell’aggettivo “sociale” che li accompagna e definisce, delle famiglie stesse e addirittura di altre donne. E il “pay gap” esiste anche nell’economia sociale, anche se è vero che è minore che nell’economia tradizionale.
E poi, ci sono quelle qualità dell’essere donna che suonano molto come retorica, ma hanno un dimostrato valore economico. Il successo di queste aziende dipende anche dalla persistenza, dalla tendenza a stabilire relazioni più profonde e durature, dall’empatia, dall’adattabilità al cambiamento e dallo stile più collaborativo del management, tutte qualità che andrebbero valorizzate molto di più e insegnate a tutti, uomini e donne.
E allora riprendiamo la domanda di prima: può l’economia sociale essere una strada per raggiungere la tanto dibattuta uguaglianza tra donne e uomini?
Le donne di “WEstart” rispondono che è complicato. Noi vogliamo rispondere di sì. Che “WEstart” dimostra, anzi, l’enorme potenziale che l’imprenditoria sociale femminile ha nel contribuire a creare un profitto sostenibile, un impatto sociale positivo e nuovi posti di lavoro. Che queste attività portano naturalmente all’emancipazione femminile e contribuiscono all’uguaglianza di genere nelle società.
E lo dicono le donne stesse. Nove su dieci riconoscono che la loro attività le ha emancipate, e l’88% aggiunge che sente di contribuire al raggiungimento dell’uguaglianza di genere. Anche se non sono sul podio delle missioni più perseguite da queste imprese, l’emancipazione femminile e l’uguaglianza di genere vengono come naturale conseguenza, e ci finiscono comunque, su quel podio.
Da qui, una semplice conclusione: favorire l’imprenditoria sociale vuol dire favorire l’emancipazione femminile, e favorire quest’ultima è accorciare la distanza che ancora ci separa dal tagliare il traguardo dell’uguaglianza di genere.