Joan Scott è un nome di grande rilievo del pensiero femminista contemporaneo, docente a Princeton, sarà in Italia il 14 febbraio per inaugurare il convegno annuale della Società delle Storiche. Di seguito riportiamo un estratto in cui ragiona sull'uso della parola genere

Genere: usi e abusi

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Stabilire una chiara distinzione tra il genere come categoria sociale – l’attribuzione di significato a corpi sessuati – e il sesso – la differenza anatomica tra uomini e donne – ha avuto una funzione importante. Ha permesso alle femministe di rifiutare l’idea secondo cui «l’anatomia è destino» (ossia che la loro differenza anatomica dagli uomini possa giustificare il loro ineguale trattamento) e ha consentito l’emergenza di studi storici e antropologici sulla varietà di capacità e di ruoli che donne differenti tra loro hanno espresso in epoche e luoghi diversi. Tale distinzione ha anche messo in discussione il presunto chiaro, e indiscutibile significato dell’anatomia stessa. Judith Butler, ad esempio, invita a pensare il sesso come referente del genere, come non avente significato in sé, prima e oltre il genere. Forse è per questa ragione che è stato quasi impossibile mantenere genere e sesso separati nell’uso ordinario. […]

A volte il termine genere è semplicemente usato come un eufemismo per sesso, un’alternativa più educata per una parola dalle troppe allusioni. Altre volte il suo impiego produce confusione […]. Di fatto è stato impossibile sostenere che il genere abbia uno statuto puramente sociologico: il termine non sembra avere un significato stabile ed è difficile determinare esattamente a cosa faccia riferimento. Per esempio, durante la discussione sulla bozza dello Statuto di Roma che ha dato vita alla Corte Criminale Internazionale (Icc) nel 1998, si scelse di usare «genere» producendone una definizione ad hoc, laddove termini quali «politico», «razziale», «nazionale», «etnico», «culturale», «religioso», «ricchezza», «nascita» ed «età» sono stati considerati come univoci e senza bisogno di ulteriori chiarimenti. Furono necessarie laboriose negoziazioni per trovare la formulazione più corretta – una formulazione la cui pesantezza riflette le controversie che essa doveva risolvere. […] A Pechino nel 1995, anche dopo l’approvazione della frase «uso generalmente accettato», diverse delegate dell’America Latina, chiaramente preoccupate per la «normalizzazione» dell’omosessualità che ne poteva discendere, sentirono l’obbligo di esprimere con esattezza ciò che ritenevano essere il significato del termine genere: «Il Guatemala interpreta il concetto di genere esclusivamente come genere femminile e maschile in riferimento ad uomini e donne». Una delegata del Perù ha insistito sul fatto che «i diritti sessuali si riferiscono solo a relazioni eterosessuali». Il Vaticano ha espresso una più generale apprensione per lo scollamento dei fondamenti della società che ne sarebbero discesi e ha scelto di intendere il significato di genere come «radicato nell’identità sessuale biologica, maschile o femminile» (United Nations, 1995). Nel corso dei dibattiti sulla Icc un commentatore notò che se il genere faceva riferimento a qualcosa al di là del maschile e femminile, la Corte sarebbe stata nella posizione di «ristrutturare le società drasticamente».[…]

Ciò che questi sforzi affannosi di limitare il genere ai due sessi (maschile e femminile) rivelano di strano è che il genere ha sempre fatto riferimento proprio a questo: alla differenza sessuale. Infatti, la critica queer ha rigettato l’uso del termine perché – afferma – esso è ancorato ad una concezione eteronormativa delle relazioni che esclude il riconoscimento del fatto che ci sono sessualità (e relazioni tra queste) che eccedono tutte le permutazioni della distinzione binaria maschile/femminile (Abelove et al., 1993). Se «queer» è ciò che intende capovolgere i fondamenti della società – sostengono – la sovversione non avverrà brandendo la categoria di genere.

Vorrei suggerire che l’inquietudine espressa nei commenti di coloro che criticano il genere è sintomatica di una inquietudine più generale sulla difficoltà di definire con precisione (o di limitare) il significato sicuro, certo e durevole della differenza sessuale stessa. Tale apprensione è anche il risultato di una sovrapposizione tra differenza sessuale (la distinzione maschile/femminile) e orientamento sessuale (la scelta di un partner sessuale). Questo vale sia per chi trova il genere troppo radicale, sia per coloro che non lo trovano radicale abbastanza. Coloro che ritengono che il genere non sia abbastanza radicale dovrebbero ascoltare quelli che temono il suo potenziale di radicalità. Per chi si oppone al genere, il termine porta con sé fantasie di desiderio sfrenato, di sessualità incontrollata. Se, come sostengono, l’eterosessualità e l’ordine sociale sono intimamente legati, l’una fornendo il fondamento naturalistico per l’altro, allora il genere – l’assegnazione arbitraria e contingente di ruoli a corpi sessuati – inverte la relazione (è la società a determinare l’identità sessuale). Anche se i referenti sono limitati a uomini e donne, l’idea stessa che essi siano definiti «all’interno del contesto della società» mette in discussione ogni rivendicazione biologica considerata auto-evidente. Secondo la logica di chi lo critica allora il genere porta inesorabilmente alla libertà di orientamento sessuale, alla separazione del desiderio dal suo mandato riproduttivo. Una volta così liberato, il desiderio sembra non aver più limiti. Omosessuali, bisessuali, transessuali sono l’incarnazione fantasmatica della fine dell’uomo. Se il termine genere aveva lo scopo di erigere un muro di separazione tra i ruoli sociali e il sesso biologico, i suoi critici invece colgono l’aspetto di una proliferazione delle sessualità: dal semplice binarismo maschile/femminile si passa a tre, quattro o addirittura cinque sessi (o generi). Le distinzioni che si chiede al genere di fare tra corpi, desideri, e ruoli sociali collassano quando la differenza sessuale e l’orientamento sessuale sono presi come sinonimi, ossia quando si ritiene che l’anatomia e il desiderio si determinino l’un l’altro e, per tale via, determinino l’identità stessa. Nessun surplus di negoziazione sembra poter risolvere questo dilemma (trouble). Da una parte si sostiene che questo gender trouble funzioni come uno scontro storico sovranazionale tra le forze dell’ordine sociale e i fautori del cambiamento, i difensori del patriarcato e coloro che sostengono la realizzazione di una «democrazia sessuale», come Eric Fassin. Credo che la politica sia più complicata di quanto questa semplice opposizione esprime. Il genere è un luogo in cui si consuma la lotta su ciò che appartiene al naturale oppure al sociale e tale lotta non separa soltanto posizioni di destra da posizioni di sinistra. Ma c’è dell’altro. […]

La differenza sessuale pone la questione dell’origine della vita (da dove vengo?); delle ragioni dei nostri corpi divisi (perché ci sono uomini e donne? Devo essere l’uno o l’altro, perché non entrambi?); della natura dell’attrazione tra questi corpi (cosa è il desiderio che provo?); e del mistero della nostra mortalità..Sono questioni queste per le quali nessuna risposta razionale o inconscia è esaustiva o soddisfacente. Le istituzioni sociali e politiche lavorano incessantemente per produrre risposte, erigendo enormi strutture su ciò che restano, malgrado tutto, fondamenta provvisorie. Il loro scopo è contenere, o almeno ridirigere le fantasie che gli individui hanno sulle differenze tra corpi sessuati (e i desideri che essi possono o non possono nutrire) e di metterle collettivamente sotto controllo attraverso varie forme di regolazione normativa.

Potrebbe sembrare che il genere come categoria analitica abbia a che fare con l’ambito che chiamiamo il sociale, ma l’oggetto della sua analisi (le costruzioni storiche delle relazioni tra i sessi) è irrevocabilmente connesso al regno psico-sessuale. È per questa ragione che il genere non può mai essere libero della sua associazione con il sesso ossia con la differenza sessuale. Poiché la differenza sessuale è il referente del genere, e poiché la differenza sessuale non ha un significato dato, fissato, il genere resta una questione aperta, un sito di conflitto sulla definizione che noi (e altri) gli attribuiamo. […]

Il genere – la pratica sociale e culturale che ne è l’oggetto di studio – è, allora, sempre un tentativo di alleviare le inquietudini collettive sui significati della differenza sessuale e di fissare, una volta per tutte, questi significati necessariamente elusivi. Elusivi perché, a dispetto delle differenze anatomiche visibili tra i corpi (qualunque sia la loro variazione), la nostra immaginazione non può essere limitata nell’assegnare loro un significato.

 

NOTA

Estratto dal testo «Gender: Uses and Abuses». Introduzione e traduzione dall’inglese di Sara R. Farris. (di prossima pubblicazione in: Sara Garbagnoli e Vincenza Perilli (a cura di), Non si nasce donna, Quaderni Viola, Alegre, 2013). Il testo completo della relazione è incluso nella raccolta di scritti di e su Joan Scott, Genere, politica, storia, in uscita presso l’editore Viella. 

 Joan W. Scott terrà la lezione inaugurale al Convegno della Società Italiana delle Storiche presso le Università di Padova e di Venezia – 14-16 febbraio 2013