Di fronte alle disparità che nascono nel mercato del lavoro, non è il livellamento forzato dell'età della pensione a garantire la parità di genere nei sistemi pensionistici. La flessibilità in uscita, con incentivi a restare al lavoro, può essere una risposta più efficace all'invecchiamento demografico
Libere di scegliere
quando andare in pensione
L’equiparazione dell’età di pensionamento tra uomini e donne nel pubblico impiego stabilita dal governo a partire dal 2010 ha suscitato un ampio dibattito, anche se interessa un numero esiguo di donne.
In Italia, gli svantaggi per le donne nel mondo del lavoro sono più ampi che altrove e le recenti riforme del sistema pensionistico, che prevedono un rafforzamento del legame tra contributi versati e benefici previdenziali ricevuti, lasciano ben poco spazio ad elementi redistributivi. Il legame stretto tra contributi e prestazioni rafforza, infatti, la funzione assicurativa del sistema pensionistico a scapito di quella redistributiva e aumenta le differenze tra donne e uomini pensionati, solo in piccola parte compensate dall’applicazione di coefficienti di trasformazione uniformi tra generi. Questo legame è massimo negli schemi di tipo contributivo, come quello previsto in Italia dopo la riforma Dini (1995), nel quale non c’è spazio per redistribuzione intragenerazionale e la finalità principale è l’equità attuariale. Se le donne sono il segmento debole del mercato del lavoro, il sistema contributivo non può che penalizzarle, a meno che non venga integrato da elementi di solidarietà, quali, ad esempio, contributi figurativi accreditati ai fini pensionistici a favore del lavoratore costretto a interrompere l’attività lavorativa, in particolare per periodi dedicati alla cura. Su questo aspetto concordiamo con la posizione sostenuta da Raitano su questo stesso sito. Così come concordiamo sul fatto che il tema dell’adeguatezza della prestazione pensionistica, in particolare delle donne, dovrebbe essere un tema centrale, tenendo conto che l’invecchiamento demografico e le risposte di policy che questo ha generato negli ultimi 15 anni rendono in generale questo aspetto molto critico, ancora di più per le donne che godono di importi pensionistici medi più bassi e speranza di vita più elevata di quella maschile. I dati recentemente pubblicati dall’Osservatorio sulle Pensioni (Inps, 2009) indicano che i redditi mensili medi relativi alle pensioni di vecchiaia sono significativamente più bassi per le donne (circa 630 euro) rispetto a quelli degli uomini (1219 euro).
Occorre tuttavia sottolineare che anche negli schemi di tipo retributivo si possono generare differenziali pensionistici a sfavore delle donne (Leitner, 2001), sia nel caso in cui la retribuzione pensionabile sia calcolata considerando un periodo retributivo esteso, sia nel caso in cui si valuti un periodo più limitato. Infatti, se si considerano i redditi dell’intero periodo lavorativo (come ad esempio in Italia dopo la riforma Amato del 1992) i periodi di inattività, che caratterizzano più le carriere lavorative femminili di quelle maschili, contribuiscono a ridurre la media sulla quale si calcola la pensione, a meno che questi periodi non siano completamente coperti dai contributi previdenziali figurativi. Se si considerano solo i redditi dell’ultimo periodo lavorativo (come in Italia prima della riforma Amato) le pensioni delle donne sono altrettanto svantaggiate, perché tipicamente le donne sperimentano profili retributivi per età più bassi e carriere più piatte o meno dinamiche degli uomini. Queste tipologie retributive sono generalmente penalizzate da sistemi retributivi che premino gli ultimi anni della carriera. A questo si aggiunga che le donne sono sovra-rappresentate nei lavori atipici, caratterizzati sia da salari mediamente bassi che da discontinuità lavorativa.
Quali ulteriori cambiamenti del sistema pensionistico italiano? Recuperare la flessibilità nell’età di uscita dal mercato del lavoro per uomini e per donne (prevista dalla riforma Dini e poi superata dalla riforma Maroni) ci sembra un punto importante e certamente preferibile all’estensione dell’innalzamento dell’età di pensionamento delle donne anche nel settore privato. Più precisamente, si tratterebbe di reinserire una finestra temporale di uscita dal mercato del lavoro, comune per uomini e donne, al posto di una precisa età di pensionamento. Un meccanismo concepito in questo modo permette di mantenere una certa libertà nella scelta di pensionamento e il ritiro anticipato dal mercato del lavoro, pur all’interno dell’arco temporale specificato, avrebbe il costo di una riduzione attuariale dell’indennità percepita.
Se associata ad uno schema incentivante al prolungamento dell’età lavorativa, questa misura potrebbe rappresentare un’efficace risposta all’invecchiamento demografico, a condizione che non solo i lavoratori, ma anche le imprese rispondano a questo incentivo. Il lato della domanda di lavoratori ultra-cinquantacinquenni è troppo spesso lasciato al margine del dibattito e l’uscita dal mercato del lavoro anticipata è interpretata come pura opzione per il tempo libero.
Come sottolineato recentemente da Barr e Diamond (2008), affrontare il tema del genere nel design dei sistemi pensionistici richiede di riconoscere l’influenza che sui redditi pensionistici esercitano altre politiche, come la tassazione dei redditi (su base individuale o familiare), la presenza di sussidi per la cura ai figli, gli orari scolastici o la flessibilità sugli orari di lavoro per i genitori in presenza di figli piccoli. Il differenziale pensionistico di genere ha origine nel mercato del lavoro. E’ nel momento dell’occupazione che si creano le differenze di genere che si perpetuano nei trattamenti pensionistici. E’ da qui che occorre iniziare se l’obiettivo è la parità di genere anche in sede pensionistica. Purtroppo la promozione del legame intergenerazionale all’interno delle famiglie italiane che figura in "Italia 2020, Piano d’azione per l’occupazione femminile", come elemento della strategia del governo per la promozione dell’occupazione femminile non fa ben sperare né per la riduzione delle differenze di genere nel mercato del lavoro, né per quelle in età pensionabile.
Riferimenti bibliografici
Leitner, S. (2001) Sex and gender discrimination within EU pension systems, Journal of
European Social Policy 11, 2: 99-115
Barr, N. e P. Diamond (2008), Reforming Pensions, Oxford University Press