Riprendiamoci il lavoro?
E' una parola
Di cosa parliamo quando parliamo di lavoro delle donne? E con chi parliamo? La divisione tra campi poco comunicanti, la necessità di cominciare un percorso fuori dagli specialismi. A proposito del numero di Sottosopra "Immagina che il lavoro"
La scelta di dedicare un numero di Sottosopra al lavoro mi sembra assai opportuna.
Da tempo si era come insinuata la (brutta) abitudine di lasciare la patata bollente nelle mani di esperte a vario titolo: sociologhe, economiste, sindacaliste, politiche, storiche, antropologhe, giornaliste. Tutte che parlavano del nostro lavoro come se lo conoscessero; ma a noi non sembrava proprio. E’ stato quasi come delegare una parte fondamentale della propria vita ed esperienza fuori di sé, nelle mani di altri e altre. Di qui l’importanza dell’indicazione di Sottosopra, da raccogliere e rilanciare in molte direzioni, anche diverse da quelle che lì vengono suggerite – un invito a riparlare di lavoro, intendendo: riprendiamoci il lavoro.
Sembra facile, ma non lo è.
Nel senso che di lavoro si parla troppo ma pare che non se ne parli mai nel modo giusto. Mancava, e ancora manca, ma qualcosa sta forse cambiando – il sensibile barometro di Sottosopra registra il cambiamento – una ‘prospettiva di convergenza’ utile per rinnovate riflessioni intorno a questo tema. Il momento è adatto, e le ragioni sono sotto gli occhi di tutti: la crisi, le troppe giovani disoccupate, quelle in età pensionabile che riflettono su cosa (non) hanno fatto nei precedenti 40 anni, la mercificazione del corpo femminile, una impennata nelle richieste per diventare velina, ecc.
Chi di noi, dopo decenni di femminismo e di studi su questo e quell’altro aspetto della vita passata e presente delle donne, di fronte allo stato attuale delle cose, non sente crescere dentro di sé rabbia, esasperazione e insofferenza? chi non vorrebbe provare a cambiare registro, e nel frattempo correggere anche di poco il quadro generale; la miseria sessuale (e non solo) dei politici; le poche ministre al governo così appannate e tristissime; le altre, opache e dimesse?
E’ quasi impossibile rispondere a questi interrogativi, e in così breve spazio si possono suggerire solo alcune brevi note. Nei limiti di un piccolo esercizio descrittivo, mi azzardo ad aggiungere qualche altra domanda: come e dove si parla di lavoro delle donne in Italia? Chi sono quelle che hanno desiderio e strumenti per discutere del numero di Sottosopra?
A prima vista la situazione sembra un po’ quella di un campo dove si affrontano due raggruppamenti composti da forze sparse, poco omogenei al proprio interno. Da un lato ci sono: femministe storiche, giovani e meno giovani donne vicine al femminismo, sindacaliste, giornaliste e intellettuali coinvolte nei dibattiti sulla miseria sessuale che ci assedia; qualche accademica (in numero ridotto) che spunta occasionalmente. Dall’altro lato si affollano: quelle che – per mestiere, per esperienza politica e sindacale, per aspirazione a essere presenti all’interno di uno spazio pubblico diverso dal proprio, forse in cerca di una maggiore risonanza – hanno accumulato carriere e saperi specifici in grande quantità; ma di tutto questo ne fanno un uso limitato ad alcuni contesti e presso istituzioni selezionate. Le prime si dibattono per superare un linguaggio appesantito dall’età, le cui antiquate formule non riescono più a colmare un vuoto reale di pratiche e di confronto politico; stentano ad aprirsi un varco. Le seconde parlano spesso in ‘specialese’; si muovono all’interno di aree ristrette, e temono i terreni scivolosi come quelli offerti dai media e dai dibattiti pubblici. In entrambi i casi sono in troppe a sentire la solitudine del proprio percorso personale e professionale, a desiderare che – come la Venere botticelliana – nasca al più presto uno spazio nuovo che consenta di tenere insieme un po’ di fili sparsi… e magari sognano di raggiungere la sponda di fronte, dove stanno le altre in attesa.
Attenzione: non si tratta di una Babele, e tanto meno di contrasti di fondo (che ci sono ma rimangono ancora inespressi). Quello che accade, a mio parere, è piuttosto una situazione di scarsa riconoscibilità reciproca; come tra straniere che si incontrano e capiscono di avere delle cose in comune, ma ciascuna ha difficoltà ad esprimersi nella lingua dell’altra. In una situazione di questo genere le diffidenze abbondano, i pregiudizi proliferano, le cautele frenano le sperimentazioni possibili. Ma i punti di incontro esistono, e sono reali.
Per cominciare, nell’uno e nell’altro raggruppamento circola molta forza, anche se si vede poco, e a stento si riesce a utilizzarla al meglio. Paradossalmente, vista la situazione, si avverte in giro (nei tanti incontri di queste ultime settimane nel paese; in qualche articolo, come nel Sottosopra di cui qui si parla, ma non solo), che 40 anni di femminismo hanno messo radici; o piuttosto, hanno alimentato la proliferazione dei rizomi. D’altra parte, il contesto è assai mutato. Oggi ‘lavoro’ ha significati diversi da quelli degli anni ‘70: non è solo doppio, ma multiforme, altamente duttile, frenetico, mutevole, nascosto; non c’è soprattutto quello di fabbrica; non siamo più tutte bianche e italiane; i nostri corpi vecchi hanno bisogno delle cure che saranno altre a prestare; quelli giovani vengono esibiti come carne in vendita nel gigantesco mercato politico-mediatico che ci governa… E poi: vogliamo continuare solo a lamentarci perché non si trova, è pagato di meno, ci sono mobbing, stalking, discriminazioni e violenze in agguato un po’ dappertutto? Credo proprio di no.
Le parole d’ordine di un tempo lasciano ormai il campo ad altre esigenze, basate sulla necessità di tenere insieme cose che prima apparivano come premesse inconciliabili: gli obiettivi della politica e i nuovi saperi, gli orizzonti ideali della tradizione insieme agli imperativi del rinnovamento, alte professionalità sposate alle ragioni dell’etica, le differenze ma anche i diritti, il divertimento e le passioni – è questo che stiamo cercando, vero? In quali modi riusciamo a comunicar(ci)e queste cose?
Esperienza ed expertise si annusano, si avvicinano e si respingono; l’una intimidisce l’altra. Questo strano oggetto del desiderio che è diventato il lavoro, a seconda dei casi ci sembra o molto astratto o troppo concreto; scivoloso e cangiante, quasi non si riuscisse mai a disegnarne un profilo dai tratti ben definiti. Difatti non ne ha; o piuttosto, non sappiamo più bene neanche descriverlo per come ci appare. Magari potremmo cominciare da qui, dalle difficoltà per individuare i significati correnti della nebulosa lavoro; parlarne criticamente. Per noi, femministe vecchie e giovani, più o meno esperte, parlare di lavoro criticamente rispetto ai discorsi dominanti e istituzionalizzati, significa soprattutto: come riuscire a utilizzare i diversi canali di informazione e comunicazione che attraversano e influiscono in profondità sulle nostre vite quotidiane.
Il terreno comune su cui poter esercitare le proprie differenti capacità di osservazione per poi riuscire a comunicarle, è qualcosa che al giorno d’oggi soltanto i media (tv, radio, giornali, rete), o i prodotti che hanno una predominante fisionomia visuale (cinema, arti, web) riescono a offrire. Non a caso. E’ qui che da tempo agisce, si organizza, si esprime, il potere; ma per fortuna anche il contro-potere.
Ciascuna di noi passa molte ore al giorno davanti a schermi di vario tipo; per dovere, e naturalmente per guadagnarsi il pane; ma anche per divertimento, per informarsi, per scrivere, disegnare, comunicare con il resto del mondo, fare politica; e, last but not least, per esercitare il diritto di critica e di ribellione. Il lavoro è un tema fantastico da declinare nei mille modi offerti da cinema, radio, televisione e reti informatiche. In questo ambito nasce ormai il linguaggio che tutti/e capiscono, l’unico che ci accomuna, quello che informa i nostri sogni e desideri, che unisce cuori ribelli globalmente sparsi.