Continua il nostro viaggio tra i modelli di maternità. Qui un contributo che riflette sul ruolo dei professionisti della nascita nella costruzione dei modelli dominanti e il rischio delle loro estremizzazioni opposte: medicalizzazione vs "naturalismo"

Mamme, le parole degli esperti

“Signora, lei è proprio una donna con le palle perché ha partorito spontaneamente un pupo di 4 kg…”. Questo il commento di un’ostetrica a pochi mesi dalla nascita di mio figlio. Una battuta apparentemente insignificante (bastevole, tuttavia, da sola per interrogarsi sul perché e sull’inopportunità di rappresentare e rappresentarsi con attributi maschili una forza e una “capacità”, se così può essere definita, femminili e per di più da parte di una professionista esperta della fisiologia femminile), ma dietro la quale si cela un’altra e forse più profonda verità: i professionisti della nascita (ostetriche e ginecologi, e poi pediatri e puericultori) attraverso le loro pratiche e i loro discorsi quotidiani, nelle interazioni con le madri pazienti e/o con la coppia genitoriale, producono e riproducono in misura tutt’altro che trascurabile modelli normativi e ideali di (buone) maternità e genitorialità del tutto conformisti e supportati dalle cosiddette “evidenze scientifiche” su cui si basano informazione e assistenza sanitaria nella cultura dominante.

L’esempio dell’ostetrica qui riportato non vuole essere in alcun modo una critica alla categoria, anzi, nei consultori e non solo in quelli, è fondamentale il loro impegno quotidiano nella tutela della salute della donna e del “prodotto” del concepimento.

Altro esempio. Il ginecologo che, per “incoraggiarmi” a dare le ultime spinte decisive per far uscire la testa di mio figlio (sempre il pupo di 4 kg di cui sopra) mi disse: “su dai, non fare la bambina, facciamolo nascere questo bambino”. O il medico che, per poter visitare mio figlio già in braccio al padre, mi invitò a prenderlo io in braccio, e commentò scherzosamente la mia precisazione che poteva continuare a tenerlo in braccio il padre, con una lapidaria: “ma è capace”? O tutti quegli altri medici che, dopo aver definito la cura per mio figlio, indirizzano solo a me-madre la descrizione delle modalità della sua applicazione, come se il genitore maschio fosse al massimo un accompagnatore-spettatore passivo relegato al ruolo di soprammobile.

L’esempio dell’ostetrica (e tutti gli altri) vogliono essere piuttosto degli aneddoti (non so se e quanto divertenti, ma reali) di come significati, rappresentazioni e aspettative dominanti attorno alla nascita (e ai ruoli genitoriali e alla cura dei bambini) siano veicolati anche dai suoi professionisti.

Quello che sto cercando di dire è che non vanno consiederati solo gli stereotipi di genere di cui sono portatori i professionisti sanitari in quanto attori sociali che influenzano, modificano, riproducono modelli culturali e ruoli sociali circa la genitorialità e la cura dei bambini, ma anche le constatazione che il modo in cui i genitori arrivano a definire i loro ruoli e il benessere dei bambini è influenzato dalle pratiche e dai saperi esperti nella relazione terapeutica con i professionisti (Favretto, Zaltron, 2013) e dagli specifici modelli organizzativi e assistenziali in area materno-infantile.

Riportando i risultati di una recente ricerca sulle rappresentazioni della genitorialità adeguata nella relazione terapeutica genitori(e bambino)-pediatra, Favretto e Zaltron, affermano, ad esempio, che “i genitori vivono in un contesto sociale che legittima in massima misura il ricorso ai saperi esperti, ritenuti i più validi in ogni campo, per definire modelli comportamentali e stili di vita adeguati. Ciò può ingenerare, in via generale, sfiducia nelle poprie capacità di attore competente nelle varie situazioni sociali, in quanto i processi di attribuzione di legittimità alle specializzazioni proprie di ogni singolo campo delegittimano, per quel campo, modelli interpretativi non congrui con quelli specialistici” (2013, p. 111).

Riguardo ai modelli prevalenti di assistenza all’evento nascita, si è progressivamente assistito al passaggio da un modello “medicalizzato” ad uno più "umanizzato". Nel modello medicalizzato viene chiesto implicitamente alla donna di affidarsi alle mani di medici e ostetriche mantenendo un atteggiamento collaborativo finalizzato ad accogliere direttive e interventi in quel momento considerati utili e indispensabili per il buon esito del parto e poi dell'allattamento. Il modello umanizzato invece è più attento ai bisogni e alle sensazioni umane della madre e del bambino, volto ad incentivare l’autonomia nel prendere le decisioni che riguardano la sua salute e quella del suo bambino in un’ottica di empowerment in cui chi possiede il sapere del parto (e anche del prima e del dopo) non è soltanto l’operatore ma anche o soprattutto la donna che dovrebbe essere aiutata ad attivare le sue competenze endogene.

Ora, non c’è dubbio che quest'ultimo modello sia apprezzabile, ma esso può evidentemente essere condotto in modo non adeguato o addirittura estremizzato fino a diventare rischioso. 

Per quanto riguarda il primo punto, per fare qualche esempio (che potrà apparire banale), il modo in cui sono organizzati i corsi di preparazione al parto, o le ore notturne immediatamente successive al parto in molti punti nascita (specie pubblici) forse non promuove abbastanza la co-genitorialità e la partecipazione attiva dei padri nell’accudimento dei figli a partire dai loro primissimi giorni di vita. Nel primo caso infatti si prevede il coinvolgimento dei futuri padri spesso solo ad un incontro (quello in occasione della visita della sala travaglio e parto); nel secondo invece si promuove il contatto/la relazione madre-figlio con il “rooming-in” ma per esigenze normalizzatrici non è consentito alla puerpera che ha partorito fisiologicamente (anche se questa lo desidera) di essere assistita di notte da figure diverse dal personale medico/infermieristico (e quindi nemmeno dal padre-compagno/marito).

Per quanto riguarda il secondo punto, rispetto assoluto è dovuto a chi liberamente sceglie di rimanere a casa, di dedicarsi in tutto e per tutto ai propri figli, e anteporre sempre i loro bisogni alle proprie necessità (Favretto, Zaltron, 2013), di allattare ad oltranza il bambino, di usare pannolini lavabili, di fare il sapone in casa, per usare le parole di Lipperini (2013); ma il rischio intravedibile, per chi non altrettanto liberamente può scegliere o si identifica con modelli diversi di maternità è la crescente pressione sociale a conformarsi a questo modello di (buona) madre “naturale”, a trasformare cioè in maniera strisciante qualcosa che può anche far piacere ed essere liberamente agito in un dovere subito (Lipperini, 2013).

 

Bibliografia

Favretto A. R., Zaltron F., “Genitori, bambini e pediatri: le rappresentazioni della genitorialità adeguata nella relazione terapeutica” in Quaderni acp 2013; 20(3): pp. 109-112.

Lipperini L., 2013, Di mamma ce n’è più d’una. Feltrinelli. Milano. 


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