Negli Stati uniti e in Europa i tech jobs sono percepiti come "roba da uomini", e le ragazze infatti se ne tengono alla larga. Ma molti pensano che se le giovani evitano come la peste il settore tecnologico, è colpa dei modelli culturali dominanti. E si danno da fare per cambiarli: anche a colpi di spot
Il genere dell'ingegnere.
Ragazze tech alla riscossa
È circolato molto negli ultimi giorni lo spot della Goldiebox, moderno Meccano per bambine, ed è diventato un evento: primi quattro giorni è stato cliccato, e visto da 6 milioni e 400 mila persone. Un successo strepitoso, inaspettato e certo di buon augurio per le vendite natalizie di un giocattolo che proclama il suo intento pedagogico. Perché, come dice Debbie Sterling, fondatrice della neonata piccola azienda di Oakland, in California, “Vogliamo che le ragazzine comincino a usare un po’ di piu’ il loro cervello”.
“It’s time to change”, è tempo di cambiare, cantano le tre protagoniste dello spot, bambine tra i 5 e I 7 anni, ma con il piglio già da adolescenti, decise appunto a farla finita con bambole e vestitini rosa per diventare nientemeno che ingegnere. “Siamo ben di piu’ che piccole principesse – come recita la filastrocca finale, sempre sull’aria di Girls dei Beastie Boys – ragazze capaci di costruire astronavi, programmare nuove applicazioni per computer”. Cominciando a giocare con Goldiebox, e sfidando i dati che raccontano quante poche siano oggi le ragazze e le donne che lavorano con scienza e tecnologia. Soprattutto negli Stati uniti.
Se infatti in Europa le cose vanno male, con un misero 2,9 per cento di laureate, ridotte poi al lumicino, lo 0,4 per cento, di occupate nel settore, da questa parte dell’oceano la situazione è addirittura disastrosa.
Perché se le donne statunitensi, anche grazie alla grande recessione, sono diventate spesso e volentieri quelle che portano i soldi in famiglia, e arrivando a rappresentare oggi il 57% di chi lavora nel campo delle professioni, i numeri cambiano, drammaticamente quando si passa a esaminare i “tech jobs”. In questo caso le donne sono solo il 26%, e il futuro e’ancora più nero. Le diplomate nel settore costituiscono infatti solo il 18% e nessuno si aspetta che il loro numero cresca. Anzi, visto che da decenni, per la precisione dal 1984, la presenza femminile nei lavori del settore tecnologico è calata anno dopo anno. Si calcola che il declino sia addirittura del 64%, né si vede nessuna inversione di tendenza. Certo ci sono le mosche bianche, come Marissa Mayer, amministratrice delegata e presidente di Yahoo, o Sherry Sandberg, appena diventata la nuova capa di Facebook. Ma se sono arrivate così in alto è probabilmente più per le loro capacità manageriali che per la loro abilità tecnica.
Per cercare di far fronte alla situazione, si moltiplicano così le piccole e grandi iniziative. Come quella lanciata da Tara Chklovski, ingegnera aereospaziale e docente alla University of Southern California, che nel 2006 ha fondato Iridiscent, laboratorio tecnologico al femminile, e ora ha dato vita al tech innovation challenge. Un progetto mirato per le ragazze che frequentano le medie inferiori e superiori nelle scuole di Los Angeles, San Francisco, New York, Chicago e Boston, a cui si chiede di inventare un’applicazione che possa servire alla propria comunità. In premio, per le migliori, ci sono ben 10mila dollari, con cui si spera le vincitrici finanzino la loro futura carriera tecnologica. Magari seguendo i consigli di Curiosity Machine, il sito dove bambini e bambine possono postare le loro invenzioni. E dove ora si può sognare di viaggiare nello spazio come Sandra Bullock, la protagonista del film Gravity, sperimentando con il Gravity Design Challenge, sponsorizzato dalla Warner Bros.
Perché su una cosa tutti paiono concordare, almeno da quella parte dell’oceano. Se le ragazze evitano come la peste i tech jobs, è colpa dei modelli culturali dominanti. Come racconta Don Yanek, insegnante di tecnologia al Northside College Prep di Chicago, tutto comincia ben prima di arrivare sui banchi di scuola. “È un po’ come la storia di padre e figlio che trafficano assieme con il motore dell’automobile di casa, che si ripete ora davanti al computer. E il messaggio è lo stesso, non sono cose da femmine”. O almeno non lo sono nel nostro mondo occidentale, di qui e di la’ dall’oceano. Perché se lo sguardo si sposta altrove, verso l’Asia, si scopre che le ragazze studiano e lavorano con la tecnologia, indifferenti ai nostri modelli culturali, come spiega lo studio di Winifred Poster, docente di sociologia alla Washington University di Saint Louis.
Tra le tabelle pubblicate la più interessante, per non dire quella sconvolgente, è la graduatoria mondiale elaborata dall'Unesco, in cui si scopre che il paese con la più alta percentuale di donne che lavorano nel settore tecnologico è nientemeno che il Myammar, la Birmania. Seguita a ruota dalla Latvia e dall’Argentina, mentre gli Stati uniti, così come la Francia e la Germania sono ben al di sotto della media. Certo, i dati sono del 2003, molte cose sono sicuramente cambiate negli ultimi dieci anni, ma forse non tutte. Il cuore della ricerca della Poster infatti è l’analisi comparata di ciò che succede negli Stati Uniti e in India. Due paesi nel 2003 fanalini di coda nella tabella Unesco, ma con un futuro divergente. Il trend americano è infatti nettamente discendente, quello indiano al contrario punta verso l’alto. Già nel 2007 i dati sono quelli del National Network of Education, c’erano ad esempio più donne ingegnere in India che in America (in numeri assoluti, 300mila contro 100mila). E di nuovo, il perché è tutto culturale. Uno studio realizzato in quattro grandi città indiane, racconta infatti come le ragazze, al contrario delle loro coetanee americane, non pensano affatto che i tech jobs siano maschili. Opinione più che condivisa dai loro genitori che anzi le spingono a scegliere una carriera scientifica, o più semplicemente tecnologica, non solo per gli alti stipendi del settore, ma perché ritengono che migliorino anche le loro prospettive matrimoniali.