In prima persona, contro la violenza. Paola Di Nicola

Storie

Dedico lavoro ed energie a contrastare la violenza contro le donne perché è la più penetrante, inascoltata e sottovalutata violazione dei diritti umani. Appartiene drammaticamente alla storia dell’umanità, inizia nella notte dei tempi, e sol per questo viene ritenuta una forma ineliminabile di relazione umana. Solo quando si riuscirà a far pensare, a tutti, che la sopraffazione sulle donne lede la dignità umana e non è un modo ordinario di rapporto tra i sessi, forse potremmo dire di vivere in una democrazia compiuta. 

Ancora oggi gli adolescenti pensano che toccare il sedere di una ragazzina non sia reato, a partire proprio dalle ragazzine, così come alcuni cosiddetti giuristi sostengono che la violenza su una moglie o su una prostituta è meno grave di quella praticata su qualsiasi altra donna. 

Questo perché la nostra società è permeata dall’idea che il corpo delle donne non è inviolabile, è un corpo a disposizione di chi lo vuole, così come è drammaticamente trasfigurata dal pregiudizio di genere e dalla divisione patriarcale dei ruoli familiari e sociali. Poco si è fatto su questo fronte.

Ogni giorno vedo nella mia aula di giustizia donne, anche giovani e istruite, che pensano che essere maltrattate fisicamente e moralmente per anni da un marito o da un fidanzato sia “normale” e vada tollerato per il falso mito dell’unità familiare, facendo confusione tra amore e gelosia morbosa, troppo spesso distanti anni luce dal rispetto e dal riconoscimento dell’altrui identità. Quando denunciano spesso è troppo tardi perché i loro figli, maschi e femmine, hanno intanto introiettato quel modello che riprodurranno in una spirale senza fine.                

Sono giudice penale e mi occupo di tanti tipi di reati: dall’evasione fiscale, alla criminalità da strada, allo spaccio, alle truffe, alla corruzione fino alle violenze in famiglia. Da quando ho messo "le lenti di genere”, cioè ho guardato la vita che scorre intorno a me cercando di comprendere quali ruoli avessero gli uomini e quali le donne, ho a scoperto che la maggior parte dei reati sono commessi da uomini, specie i reati dei cosiddetti colletti bianchi. Sono l’80 % gli uomini tra i miei imputati e questo non perché le donne siano più buone, ma perché sono troppo poche quelle che  rivestono ruoli di potere nella società,  nella famiglia, nell’economia. Invece chi commette reati di solito deve avere potere, anche un piccolissimo potere, altrimenti non avrebbe bisogno di violare le regole della civile convivenza. Le donne che commettono reati solitamente hanno un ruolo di subordinazione o lo fanno per tirare avanti la famiglia, perché non ce la fanno. Sono protagoniste di piccoli furti, di piccole truffe. Niente di più. Quale costo sociale ha questo divario di genere nella commissione dei reati ? Nessuno se lo chiede...        

Sono diventata giudice perché mio padre faceva il magistrato ed era un magistrato antiterrorismo nel periodo in cui tanti, troppi, venivano ogni giorno uccisi sulle strade.

Questo mi ha fatto sentire forte il senso dello Stato, della ragione, dell'argomentazione, delle regole contro l’ottusità e la cecità della violenza che non discute ma sopraffà. Credo che la nostra funzione, così delicata e così difficile, possa essere riconosciuta dai cittadini in nome dei quali amministriamo la giustizia solo con la forza della nostra credibilità quotidiana che si esprime nella professionalità, nell’umanità, nell'educazione, nella semplicità, nel rigore e nella necessità di conoscere innanzitutto la realtà su cui incidiamo. Su questo si inserisce in modo significativo la questione di genere nel senso che chi indossa la toga è, prima di tutto, uomo o donna e questo non è neutro. Se non si ha consapevolezza di questo si rischia di sbagliare nel senso di diventare vittime dei pregiudizi che ammantano e ammorbano la nostra cultura e le nostre aule.

Nel nostro lavoro non si ottengono successi perché le condanne sono sempre una sconfitta di un contesto sociale, culturale, formativo  o economico che non è stato in grado di trasmettere messaggi positivi, valori, regole, dignità, rispetto. Un successo però, sotto il profilo culturale, mi sento di averlo ottenuto quando ho visto che altre mie colleghe si sono firmate con l’articolo al femminile “La giudice”, percependo che la loro toga non era neutra, ma aveva una precisa connotazione di genere. Allo stesso tempo posso dire che la parte più difficile del mio lavoro è distruggere il pregiudizio di genere che alberga, più o meno consapevolmente, in chi entra in un’aula di giustizia e vede davanti a sé una giudice e non un giudice.    

Mi piacerebbe per il futuro una legge che imponesse le quote di genere negli uffici direttivi della magistratura e nel Consiglio Superiore della magistratura. Le donne sono il 50 % in magistratura ma ai vertici degli uffici siamo meno del 18 %; nel CSM a luglio i magistrati hanno eletto solo una donna, sebbene ci  fossero molte candidate. Le donne non sono state votate, a cominciare dalle loro colleghe… Solo forzando su questo ce la faremo altrimenti i tempi diventano biblici e noi non vogliamo più aspettare.

Penso che una misura politica utile per contrastare la violenza contro le donne potrebbe essere quella di fare progetti continui di formazione nelle scuole a partire dai nidi per il riconoscimento della dignità e della differenza dei generi e delle persone. Nasciamo maschi o femmine, ognuno con le proprie particolarità e specificità, e per tali andiamo rispettati senza alcuna imposizione di modelli costruiti da una società e da una cultura fondata sulla sopraffazione di un genere sull’altro.

Paola Di Nicola

Giudice dibattimentale del tribunale penale di Roma


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