Quali sono stati in Italia i primi effetti dell'introduzione delle quote di genere nelle società quotate in borsa? Parlano i dati

Gli effetti delle quote
nelle imprese

di Paola Profeta

La scarsa rappresentanza delle donne nelle posizioni decisionali è uno degli elementi più evidenti dei divari di genere nel mercato del lavoro ed è comune a tutti i paesi europei, a differenza della scarsa occupazione femminile, che caratterizza soprattutto alcuni Paesi, Italia in primis.[1] 

L’esperienza europea dell’ultimo decennio mostra che l’introduzione di quote di genere è la misura più efficace per migliorare la rappresentanza femminile: difficile pensare a progressi sostanziali nella presenza femminile ai vertici in paesi senza quote. Al di là della controversia sui vantaggi e gli svantaggi di una forzatura del sistema – come sono le quote – e dell’idea condivisa che in un mondo ideale in cui vale solo la meritocrazia e tutti hanno le stesse opportunità le quote non sarebbero necessarie, cosa sappiamo degli effetti delle quote? Sono davvero un male per la meritocrazia, perché impongono un vincolo costoso che limita la libertà di scelta e impone una selezione non necessariamente del miglior candidato, ma di quello che permette di soddisfare la quota? O sono invece uno strumento utile per ristabilire una corretta selezione che si è perduta?

Fin dall’introduzione della legge 120/2011, detta “Golfo-Mosca” che impone quote di rappresentanza di genere nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali delle società italiane quotate e a controllo pubblico, l’Italia è diventata un “laboratorio di studio e di analisi”. Una legge così forte in un paese noto per le sue deludenti statistiche di genere non era facile da prevedere. Allo stesso tempo, è un’occasione unica per i ricercatori per capire davvero quali effetti hanno le quote. 

La legge Golfo-Mosca ha delle caratteristiche importanti:

  1. è temporanea, cioè impone le quote solo per tre elezioni successive degli organi;
  2. è graduale, cioè impone che il genere meno rappresentato sia presente almeno al 20% per la prima elezione dopo l’entrata in vigore della legge, e poi al 33% per la seconda e la terza;
  3. prevede sanzioni forti che non lasciano spazi di inadempienza, visto che arrivano fino allo scioglimento dell’organo.

La temporaneità è collegata all’idea che sia necessaria una misura shock, per rompere un equilibrio consolidato in cui i Cda erano quasi esclusivamente maschili; la gradualità facilita l’implementazione e le sanzioni garantiscono l’adempienza.  

Grazie alla legge, e a queste sue caratteristiche, le donne sono passate da circa il 6% dei membri di consigli di amministrazione di società quotate nel 2011 all’attuale 30%. Un balzo in avanti che non sarebbe stato possibile senza quote in così breve tempo.

Ma quali sono gli effetti delle quote? Cosa impariamo dall’esperienza italiana sul legame quote-meritocrazia?

La raccolta e analisi di 4.627 curriculum vitae dei consiglieri e sindaci delle 245 società quotate italiane nel periodo 2007-2014, insieme alla raccolta dei dati di performance e finanziari delle aziende stesse, ci permette di arrivare ai seguenti risultati[2]:

  1. Le quote portano ad un rinnovamento complessivo dei board, con un significativo aumento dell’istruzione (laurea e post-laurea) dei membri (uomini e donne) e una riduzione dell’età. Non ci sono variazioni significative dei membri con legami familiari né di quelli presenti in più organi. L’analisi sulle caratteristiche dei membri entranti, uscenti e confermati permette di legare l’introduzione delle quote a un miglioramento nel meccanismo di selezione: i nuovi membri sono “migliori” degli uscenti. 
  2. Le quote non si associano a una riduzione della performance aziendale, considerando indicatori quali ROA (return on assets), Tobin’s Q, produzione, profitti, numero di occupati, anche se non si evidenziano miglioramenti, probabilmente perché è troppo presto.  
  3. Le quote sono associate a una riduzione nella variabilità del prezzo delle azioni.
  4. I mercati azionari premiano positivamente (il rendimento aumenta) l’introduzione di quote e l’elezione di membri con più elevata istruzione e minore età. Il rinnovamento dei consigli indotto dalle quote si riflette in risultati di mercato migliori. 

Il risultato principale è dunque la relazione positiva tra quote e meritocrazia, probabilmente perché lo status quo non era basato su criteri meritocratici. Le quote di genere rompono un equilibrio in cui non necessariamente la selezione avveniva considerando tutta la platea delle competenze a disposizione -  di fatto escludendo le donne. Le quote rimuovono gli ostacoli ad una sana e benefica competizione e ristabiliscono il criterio del merito con benefici per tutti.  

Le quote di genere danno risultati ben oltre l’aumento numerico della rappresentanza femminile - obiettivo principale per il quale erano state introdotte. Ma cosa c’è “dopo le quote”? Riusciamo a creare quegli effetti positivi a cascata sulle posizioni manageriali e ancora più in basso, sull’occupazione femminile? È ancora presto per rispondere con i dati a questa domanda, ma probabilmente gli effetti non saranno così forti. Le quote non sono una “ricetta magica” per risolvere tutti i problemi di disparità di genere nel mercato del lavoro italiano. Ma sono un segnale importante, che si accompagna a risultati di rinnovamento, di inclusione e di meritocrazia. 

Note

[1] Questo articolo è tratto dall'intervento che ho tenuto l'8 marzo 2017 a Bologna all'interno del convegno organizzato da Nomisma per discutere di parità di genere nelle aziende italiane quotate in borsa.

[2] Si veda Gender quotas: challenging the boards, performance and the stock market, W.P. IZA 10239, 2016 


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