Nuove tecnologie e organizzazione del lavoro, lo smart working è davvero la nuova frontiera della conciliazione? Tutti i rischi sulle carriere e sui diritti di chi ne usufruirà di più, le donne
Tutti i rischi dello
smart working
Il tema della conciliazione vita-lavoro è stato tradizionalmente affrontato nella prospettiva del sostegno all’equilibrio di genere nel lavoro di cura e, quindi, come uno strumento per promuovere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro.
In tempi più recenti, tuttavia, il cosiddetto work-life balance è stato progressivamente concepito anche come strumento per favorire il benessere sul luogo di lavoro e, quindi, come un fattore e un indicatore del “lavoro sostenibile”, e cioè di un sistema di organizzazione e gestione del lavoro che sia efficiente e ottenga risultati economici e produttivi, e, allo stesso tempo, promuova e tuteli lo sviluppo delle capacità, delle competenze e dell’individualità del lavoratore, consentendo altresì un adattamento dinamico delle condizioni di lavoro alle esigenze di quest’ultimo nell’arco di tutta la vita lavorativa.
Tra questi modelli organizzativi si annovera lo smart working, comunemente definito come la possibilità di svolgere il lavoro ovunque e in qualsiasi momento (anywhere and at anytime), utilizzando nuove tecnologie di informazione e di comunicazione, in particolare i dispositivi mobili (smartphone, tablet, laptop, ecc).
Secondo uno studio della Commissione europea del 2010, la mobilità e l'uso di tecnologia portatile sono le caratteristiche fondamentali di questo tipo di lavoro. Gli smartworkers, altrimenti detti e-workers o e-nomads, i lavoratori da remoto insomma, sono identificati come quei lavoratori che, avvalendosi di una connessione a Internet, lavorano almeno dieci ore alla settimana in posti diversi dall’ufficio e dalla propria abitazione.
La de-materializzazione del luogo di lavoro e la flessibilizzazione dei tempi di lavoro, che caratterizzano questa modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, sono rappresentati quali strategie organizzativo-gestionali idonee a soddisfare per un verso le esigenze dei datori di lavoro di ridurre i costi e incrementare la produttività e per l'altro le esigenze dei lavoratori di conciliare vita professionale e personale, grazie alla maggiore autonomia di cui essi possono godere nella gestione delle coordinate spazio-temporali della propria prestazione lavorativa.
In realtà, una recente analisi svolta congiuntamente dall'Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) ed Eurofound – i cui esiti sono confluiti in un rapporto pubblicato a febbraio 2017 e dedicato a telelavoro e lavoro "mobile" nel settore dell'ICT in 10 Stati membri dell’Ue (Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Ungheria, Italia, Olanda, Spagna, Svezia e Regno Unito), nonché in Argentina, Brasile, India, Giappone e Stati Uniti – mette in luce come l’utilizzo delle nuove tecnologie non sortisca solo effetti positivi, ma comporti inevitabilmente anche alcune negatività. In termini di sostenibilità del lavoro, le nuove tecnologie mobili rendono sempre più difficile prendere le distanze dalle attività lavorative. In effetti, essere always on, e cioè sempre raggiungibili e disponibili per il datore di lavoro, può accentuare il conflitto tra il lavoro e la famiglia o comunque la propria sfera personale, perché il confine tra lavoro e vita privata tende a scomparire.
L’iper-connettività che può derivare dall’utilizzo delle nuove tecnologie digitali, per un verso, espone a maggiori rischi la salute - tanto fisica, quanto mentale - dei lavoratori da remoto, i quali possono incorrere più facilmente in patologie quali il techno-stress, la dipendenza tecnologica, il burnout; per altro verso, tende a confondere i confini tra vita professionale e vita personale, in contraddizione con la finalità stessa alla quale si assume sia orientato lo smart working. Tale modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, infatti, favorisce la cosiddetta time porosity, ovvero la reciproca interferenza e sovrapposizione tra tempo di lavoro e tempo di vita, che può essere fonte di conflitti personali e familiari.
In questo contesto si collocano la riflessione scientifica e la regolazione giuridica del diritto alla disconnessione, identificato come un possibile antidoto per gli effetti negativi dello smart working sulla salute e sul benessere di chi lavora. Possiamo definirlo come il diritto del lavoratore a interrompere i contatti con il datore di lavoro (non rispondere alle mail, spegnere il cellulare, ecc.), senza per questo incorrere nell’inadempimento della prestazione e, conseguentemente, esporsi a sanzioni disciplinari.
Gli ordinamenti più avanzati rispetto alla elaborazione teorica e alla disciplina del diritto alla disconnessione sono quello francese e tedesco, nei quali si sono sviluppate interessanti esperienze pioneristiche di regolazione per ridurre il lavoro da remoto informale e irregolare, ad opera, rispettivamente, della contrattazione collettiva (Areva 2012, Syntec 2014) e delle prassi aziendali (Volkswagen, BMW), quali ad esempio la disattivazione dei server al di fuori dell’orario di lavoro. Da ultimo, il legislatore francese, con la Loi Travail n.1088 del 2016, ha introdotto il diritto alla disconnessione tra le materie oggetto della negoziazione annuale obbligatoria per le imprese, che interviene su pari opportunità e qualità del lavoro. Tuttavia, non è stato previsto un obbligo a contrarre e di conseguenza, nel caso in cui non si raggiunga alcun accordo, la previsione delle modalità di attuazione di tale diritto è rimessa alla discrezionalità del datore di lavoro.
In Italia, il dibattito su questo argomento sconta un discreto ritardo, ma si appresta a diventare vivace, a seguito della recente introduzione della disciplina del “lavoro agile” con l’approvazione della legge 81 del 2017.
I contratti collettivi che per primi sono intervenuti a regolare lo smart working non hanno attuato meccanismi specifici per controllare il fenomeno della connessione continua dei lavoratori. Eppure, le soluzioni organizzative concordate sono state valutate dalle parti firmatarie come pienamente coerenti non solo con l'obiettivo di soddisfare l'interesse dei datori di lavoro ad aumentare la produttività e ridurre i costi di gestione del posto di lavoro, ma anche di assicurare maggiore flessibilità ai dipendenti, nei luoghi di lavoro ancor più che nel tempo di lavoro[1].
La legge prevede che “i tempi di riposo del lavoratore, nonché le misure tecniche e organizzative per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro”[2] siano definiti da un accordo tra le parti del contratto di lavoro.
Il principale problema che si pone con riferimento al diritto alla disconnessione è quello della sua effettività, ovvero di come assicurarne la concreta applicazione. Al riguardo, il dettato normativo richiamato desta qualche perplessità, in quanto il diritto di disconnessione non è altro che formalmente dichiarato, senza che si prevedano strumenti specifici per la sua attuazione.
Quanto all'obiettivo di conciliazione vita-lavoro, poi, la norma non prevede alcuna condizione o limitazione per garantire che l'accordo individuale di lavoro agile lo persegua effettivamente e ne faciliti la realizzazione, anzi sembra presumere che migliori possibilità di conciliazione siano il risultato naturale e virtuoso di questo modo di lavorare flessibile. A tal riguardo, vale la pena evidenziare che la possibilità di ricorrere al lavoro agile solo attraverso il consenso individuale del lavoratore (art. 18), insieme con la possibilità di risolvere il medesimo accordo senza obbligo di giustificazione, ma semplicemente rispettando il termine di preavviso (art. 19, c. 2), potrebbe essere più penalizzante soprattutto per i caregivers, per i quali la prevedibilità dei cambiamenti dell'organizzazione dell'orario di lavoro è particolarmente importante.
Significa che se ad optare per questa modalità di esecuzione dell’attività lavorativa, con l’obiettivo di ottenere tempo "liberato" per attendere ad attività di cura, saranno di fatto le donne, esse potranno ritrovarsi maggiormente esposte alle relative criticità. A ciò si aggiunga che la mancata previsione di una qualunque forma di intervento della contrattazione collettiva non consente di assicurare la genuinità del consenso espresso dal lavoratore.
In altri termini, la flessibilità funzionale della prestazione lavorativa, con riferimento a spazio e tempo, che caratterizza il lavoro agile, si può certamente prestare a soddisfare istanze di conciliazione, ma non le garantisce di per sé, se i lavoratori non godono di sufficiente autonomia nella determinazione in concreto delle modalità di esecuzione della prestazione e di adeguate tutele per i loro diritti. Diversamente, rischia di risolversi nel rafforzamento dei poteri unilaterali del datore di lavoro.
Il presente articolo nasce dall'intervento tenuto da Carla Spinelli in occasione della partecipazione al seminario "Il lavoro a distanza", tenutosi presso l’Università Cattolica di Milano il 15 maggio 2017.
Note
[1] Si tratta prevalentemente di accordi aziendali, stipulati soprattutto nel settore bancario/assicurativo (Bnl 2015, Bnp 2015, Intesa Sanpaolo 2014, Zurich 2015), ma anche in quello dei prodotti alimentari (Barilla 2015), della lavorazione dei metalli (General Motors Powertrain 2015) e dell'energia/petrolio (Snam 2015, Eni 2017, Enel 2017), che regolano la possibilità di svolgere un lavoro a distanza, definendone le coordinate di spazio e tempo, la retribuzione e le condizioni di salute e sicurezza per i lavoratori. Per un elenco aggiornato si rinvia all’Osservatorio Adapt sullo smart working.
[2] Articolo 19, comma 1.
Riferimenti
Albano R., Bertolini S., Curzi Y., Fabbri T., Parisi T., DigitAgile: l’ufficio nel dispositivo mobile. Opportunità e rischi per lavoratori e aziende, Osservatorio MU.S.I.C. Working Paper n. 3, 2017
Peruzzi M., Sicurezza e agilità: quale tutela per lo smart worker, in Diritto della Sicurezza sul Lavoro, n. 1, 2017
Tiraboschi M., Dagnino E., Tomassetti P., Tourres C., Il “lavoro agile” nella contrattazione collettiva oggi, Working Paper Adapt, n. 2, 2016
Tinti A., La conciliazione ingannevole
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