Non sono le macchine a essere disumane, ma alcuni tipi di lavori che le persone non dovrebbero fare. Ne parliamo con Cecilia Laschi, che in Italia ha dato avvio alla soft robotica all'interno della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa

Quello che non abbiamo
ancora capito dei robot

di Redazione

Cecilia Laschi insegna bioingegneria industriale all’Istituto di Biorobotica della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa. Nella redazione di alcune tra le più importanti riviste internazionali di robotica, negli ultimi vent'anni è stata visiting researcher allo Humanoid Robotics Institute della Waseda University di Tokyo, ha pubblicato più di 200 articoli scientifici e ha dato avvio alla soft robotica, una branca della robotica ispirata agli organismi viventi che negli anni ha trovato applicazioni nel settore dell'assistenza alle persone. L'abbiamo intervistata per capire che tipo di futuro ci aspetta.

Lei e l’istituto presso cui insegna e fa ricerca rivestite un ruolo importante nello sviluppo della robotica in Italia e in particolare della biorobotica. Può farci degli esempi di applicazioni che avete sviluppato o state sviluppando che possono essere usate nell’assistenza e nella cura degli anziani? Le avete testate? Con quali risultati?

Io mi occupo di soft robotica, vale a dire di robot costruiti a partire da materiali morbidi. È una ricerca nata ispirandosi al polpo, un mollusco che riesce senza parti rigide a esercitare forza, muoversi, afferrare gli oggetti. All'Istituto di Biorobotica abbiamo sviluppato la tecnologia indipendentemente dalle applicazioni, e in un secondo momento siamo stati contattati da esperti e ricercatori che si occupano di assistenza agli anziani e geriatria, a cui la robotica soft è sembrata la risposta più adatta. Nello specifico ci è stato chiesto di sviluppare un braccio per rispondere ai bisogni dell’igiene personale e dell’ambiente della doccia che potesse fornire un ausilio a persone anziane ancora attive ma limitate nei movimenti per motivi di età. Da qui è nata la nostra doccia robotica, una proboscide morbida che spruzza acqua e sapone e si muove intorno al corpo. Spesso il braccio è abbinato a una sedia che garantisce una maggiore stabilità nella doccia. È un’applicazione che abbiamo sperimentato a livello europeo su diverse persone per definire preferenze e testarne la funzionalità. I risultati sono stati soddisfacenti.

La biorobotica rappresenta una delle frontiere della robotica, sviluppando dispositivi che prendono a modello esseri viventi, inclusi piante e animali. Può farci un esempio di come questa disciplina si differenzia da forme più tradizionali di robotica, in particolare dalla robotica industriale?

La robotica industriale è una delle discipline più incredibili al mondo, nel senso che in pochissimi anni ha raggiunto risultati sorprendenti in termini di robustezza e affidabilità. Incredibile, se pensiamo che sessant’anni fa non esisteva. Siamo riusciti a costruire robot che nelle fabbriche lavorano continuativamente per ore, mesi, anni, senza rompersi e con accuratezza. L’errore è stato quello di pensare che queste stesse macchine avrebbero funzionato al di fuori della produzione su larga scala, quindi per esempio nel settore dei servizi e dell’assistenza alla persona. Invece nella vita quotidiana questi robot non hanno funzionato così bene, perché sono più semplici di un organismo vivente ma particolarmente complessi da far funzionare. Ecco, la bioispirazione nasce da qui. Quello che la natura ci dà sono proprio dei principi di semplificazione che permettono di far funzionare un sistema complesso come il corpo di un essere vivente in maniera veloce, di reagire velocemente agli stimoli che arrivano dal mondo esterno. Quello che la biorobotica cerca di fare è di capirli e poi di imitarli. Negli animali è ancora più evidente che negli esseri umani, ci sono animali che per come ragiona un robotico non hanno tanta potenza di calcolo, però dal punto di vista delle capacità di risposta e di comportamenti funzionano benissimo, sono efficaci anche in termini di energia.

Tornando al settore dell’assistenza agli anziani, operatori sanitari, familiari e pazienti sembrano spesso diffidare dell’impiego di ausili meccanici, per quanto intelligenti, poiché temono che ciò potrebbe de-umanizzare il processo della cura rivolta a persone molto fragili. Può la biorobotica combattere questa diffidenza?

Considerando che avevo lavorato nel settore dell’assistenza agli anziani e ai disabili quando ero solo una dottoranda, quindi più di vent’anni fa, mi stupivo allora e mi continuo a stupire oggi di come per il senso comune sia quasi offensivo pensare di utilizzare la robotica nell’assistenza, perché viene vista come una delega disumana e disumanizzante rispetto a quella che potrebbe essere la cura da parte di un familiare o comunque di una persona in carne e ossa. Però, parliamoci chiaro, a volte disumano è il rapporto che la malattia porta ad avere con il proprio genitore anziano, nell’assisterlo e pulirlo, e per quanto umano consideriamo questo tipo di attività alla fine lo deleghiamo ad altre persone, le badanti. Persone che sono state più sfortunate di noi, che vengono a guardare i nostri anziani lasciando i loro da un’altra parte del mondo, e i figli a crescere con le nonne. È questo che trovo disumano. Ovviamente non esiste un robot badante, ma la robotica può permettere alle relazioni di restare umane, offrendo ausili per preservarle dagli aspetti più spiacevoli, soprattutto tra familiari, dove la relazione è così importante e delicata per ognuno. È questo che spesso non si riesce a capire, né a spiegare adeguatamente in un paese come il nostro dove spesso tecnologia ha un significato negativo e soprattutto la parola 'robot' subito richiama l’immaginario legato alla fantascienza, a qualcosa che alla fine non è reale.

Una studiosa giapponese, Nobu Ishiguro, ci ha raccontato come questo tipo di diffidenza sia diffuso anche in un paese come il Giappone considerato all’avanguardia rispetto all’introduzione di ausili robotici nel settore sanitario e dell’assistenza agli anziani. Dove affondano, dunque, le ragioni di questa diffidenza che sembra travalicare culture diverse?       

È un dato che mi sorprende, perché i giapponesi sono molto più fiduciosi e aperti rispetto alla tecnologia, e questo perché la loro letteratura fantascientifica ha sempre rappresentato i robot in chiave positiva, come aiutanti. E forse anche perché hanno una diversa cultura dei corpi e della materia che non divide tutto in animato e inanimato, e questo fa molta differenza. Nella nostra tradizione letteraria invece il robot è assolutamente senz’anima, qualcosa di completamente artificiale che finisce per essere connotato negativamente.

E se ne tiene conto nel progettare i robot del futuro?

Di solito la progettazione delle applicazioni è sempre accompagnata da un confronto continuo con i diretti interessati, quindi si tiene conto delle loro esigenze e di quelle dei loro familiari attraverso interviste e interazioni nella fase di testing, come è accaduto nel caso della doccia robotica descritta all’inizio.

Al di là della diffidenza. L’Italia è il secondo paese più vecchio al mondo proprio dopo il Giappone, potenzialmente rappresenterebbe un grosso mercato per la diffusione di ausili robotici. Invece ci si continua a interrogare sul perché ci siano centri in grado di progettare ausili robotici all’avanguardia e tutto si fermi ai prototipi sperimentali senza ricadute pratiche. Cos’è che manca per la realizzazione di questo passaggio, un vero e proprio interesse, un certo tipo di imprenditorialità, investimenti?

Capire le ragioni delle politiche non è il mio mestiere, io faccio ricerca. Posso dire che l’Italia è brava a fare ricerca, ma non è così brava a trasformare la ricerca in prodotti. È vero che mancano gli investimenti, ma quelli mancano anche per la ricerca. Forse, al di là degli investimenti pubblici, mancano soprattutto gli investimenti privati sulla ricerca nel nostro paese. Investimenti che siano a lungo termine e una volontà industriale lungimirante che non si limiti a finanziare singoli progetti destinati a morire una volta soddisfatto il bisogno imminente. Certo non si può dire che al momento non siano attive le collaborazioni tra università e imprese, noi abbiamo oltre quaranta spin-off, e non sono grandi come Google ma il loro mercato lo hanno trovato. Una pista molto battuta oggi è quella di partire dalla ricerca di un dottorando e alla fine del dottorato fare impresa a partire da quei risultati, salvo il fatto che un ragazzo che ha fatto ricerca all’università non è un manager. I ricercatori spesso non sono bravi a fare management e marketing.  

Una delle ragioni che viene spesso riportata di questo non andare al di là dei prototipi sperimentali è la paura che macchine e robot distruggano i posti di lavoro. Eppure questa paura dovrebbe essere minore nel settore della cura dove sembra difficile immaginare che gli ausili non abbiano bisogno di persone che li usino integrando ciò che possono fare. Qual è l'opinione di chi gli ausili li pensa e li costruisce?

La gente ha paura che i robot ci rubino il lavoro quando il mondo del lavoro sta cambiando drasticamente e non per colpa dei robot. I robot ci sono da trent’anni nelle fabbriche e hanno sostituito gli operai per delle mansioni pesanti che non possono gravare sui corpi dei lavoratori, ma non hanno ridotto l’occupazione: le fabbriche che hanno investito in automazione hanno aumentato l’occupazione, più l’azienda produce e più gli impiegati aumentano. La storia industriale italiana insegna, più le aziende sono andate bene, più hanno assunto, le statistiche ci sono e ci dicono che l’occupazione non è diminuita. Nei servizi, come dicevo prima, i robot invece non ci sono ancora. Abbiamo l’aspirapolvere, il tagliaerba, il pulitore per la piscina. A chi hanno rubato il lavoro? Voglio essere provocatoria, secondo me i robot di lavori ne rubano troppo pochi. C’è una valanga di lavori che le persone non dovrebbero fare perché sono disumani. Meglio mettere a rischio dieci robot che una vita umana. Il modello economico dovrebbe tenerne conto, perché ci stiamo confondendo nel voler difendere il lavoro a tutti i costi e a qualsiasi condizione e non il salario. Sono due cose diverse.

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