L'orrore della guerra, la violenza, la fuga. L'arrivo in Italia e le difficoltà dell'integrazione. Ispirate dall'esperienza del Tribunale delle donne di Sarajevo, un gruppo di attiviste ha dato vita al primo Tribunale femminista in Italia, per fornire un ascolto adeguato alle donne migranti
"Voi – le donne testimoni – siete i soggetti principali del Tribunale delle donne. Siete state invisibili per troppo tempo. Nei processi legali formali siete trattate come vittime o come persone che forniscono evidenza legale, ma nel Tribunale delle donne avete deciso di parlare a voce alta e con il vostro nome, e a modo vostro. Siete diventate testimoni di crimini e violenza, le cui voci ed esperienze non possono più essere ignorate. Siete diventate una parte autentica della storia".
Nel 2020, con le associazioni Lesconfinate e Bosnia nel cuore, presso la Casa internazionale delle donne di Roma abbiamo dedicato tre giornate alla storia e alla tragica attualità degli stupri di guerra, il cui resoconto è poi confluito in un libro (Tre giornate. Dal Rwanda ai Balcani ai campi libici greci e turchi di detenzione delle migranti. La tragica attualità degli stupri di guerra e la soggettività delle donne, a cura di Isabella Peretti e Patrizia Salierno, CSV Lazio, 2021).
In quei tre giorni così densi, durante l'incontro con l'attivista Staša Zajović, coordinatrice e cofondatrice del movimento Donne in nero di Belgrado, abbiamo ascoltato per la prima volta l’incredibile storia del Tribunale delle donne di Sarajevo: solo le donne, spiegava Zajović, hanno potuto trascendere il conflitto tra nazionalismi e mettersi insieme – slovene, croate, serbe, bosniache, montenegrine, kosovare, macedoni – dopo una terribile guerra che ha voluto dividerle. Ci sono voluti anni di incontri e di sostegno al coraggio di queste donne, testimoni di violenze etniche, crimini militari, stupri di guerra, dei quali hanno parlato nel contesto dei nuovi stati-nazione dove spesso vige l’impunità per i carnefici e la stigmatizzazione di vittime e testimoni. Chiedevano e chiedono, oltre a risarcimenti economici, forme più incisive di riparazione simbolica e di giustizia riparativa.
Fu allora che ci venne in mente l’idea di promuovere un tribunale femminista anche a Roma, alla Casa internazionale delle donne, partendo dalle donne migranti, che oggi più di tutte subiscono violenze e stupri, respingimenti, emarginazione, razzismo, violenza istituzionale. L’idea si è concretizzata in un progetto scritto con Gabriella Rossetti, che in una delle tre giornate aveva raccontato e scritto la storia dei tribunali delle donne, e con Ilaria Boiano, che era intervenuta proprio sul tema delle persecuzioni di genere da cui fuggono le donne.
Il progetto, intitolato Da vittime a testimoni. Un Tribunale delle donne per i diritti delle donne in migrazione, è stato finanziato dalla Chiesa Valdese, su proposta della Casa internazionale delle donne, con le associazioni Differenza Donna e LeSconfinate come partner operative. Hanno aderito poi Cisda, Binario 15 e Nove onlus, la cooperativa Eva, le Donne di Benin city di Palermo, Donne brasiliane in Italia, Bosnia nel cuore e Trama di terre di Imola. Il progetto ha avuto anche il sostegno della Fondazione Basso tramite Franco Ippolito e Simona Freudatario, per la loro esperienza nel Tribunale permanente dei popoli.
L’obiettivo è quello di promuovere il diritto delle donne migranti alla protezione internazionale e a forme di riparazione morale e politica, rispetto ai danni derivanti dal regime dei confini, rafforzando il loro progetto di vita nei paesi di destinazione. Inoltre, il Tribunale femminista si propone di raccogliere le testimonianze delle donne migranti al di fuori delle procedure regolate dalla legge, per restituire loro valore quale fonte di conoscenza sottratta al vaglio della credibilità istituzionale, a cui le donne sono costantemente esposte, e costruire così un archivio della memoria a partire dalle singole esperienze delle donne migranti.
Nelle sedute, invece che una giuria c'è una commissione di ascolto, per superare in questo modo la dinamica avversariale propria del processo. Quest'ultima ha il compito di identificare, a partire dalle testimonianze delle donne migranti, le doglianze individuali, i bisogni rappresentati e la richiesta di giustizia complessiva, con l'obiettivo di delineare prospettive riparatorie individuali e collettive, offrendo al contempo un'occasione di critica delle dinamiche proprie delle procedure amministrative, civili e penali che le testimoni potrebbero aver sperimentato.
La commissione oggi è composta da Giovanna Cavallo, Simona Freudatario, Teresa Manente, Silvia Niccolai, Tamar Pitch, Bianca Pomeranzi, Fereshteh Rezafeir, Alice Riccardi e Nazzarena Zorzella.
Il cuore della seduta pubblica è il momento della testimonianza, che prevede l’ascolto di donne che, in ragione della propria storia individuale, hanno avuto esperienza diretta della rotta migratoria e delle condizioni di vita in Italia. Tutto questo avviene tramite il supporto di associazioni di donne che si occupano di accoglienza e sostegno.
Alla fine di questa fase viene redatto il documento conclusivo, che ha il compito di individuare le rivendicazioni emerse e le proposte, e di scegliere gli interlocutori internazionali, europei e nazionali con i quali dialogare. Il progetto si prefigge infatti, a partire dalle singole testimonianze, di sottoporre agli organismi nazionali e internazionali documenti e rapporti per dare risposte concrete alle istanze delle donne rispetto alla piena attuazione dei loro diritti. Alla dimensione simbolica di accoglienza e di ascolto si aggiunge così quella concreta dell’impatto sulle leggi e le politiche, rispetto al quale c'è un grande impegno da parte delle organizzazioni coinvolte.
La testimonianza viene quindi considerata come una fonte insostituibile di conoscenza per la costruzione della memoria.
Con le prime due sedute di questo inedito tribunale stiamo incrociando le vite delle migranti. Il 27 maggio, alla Casa internazionale delle donne, di fronte alla Commissione di ascolto le donne afghane hanno partecipato numerose, con un desiderio forte di condividere le loro storie di lotta, migrazione e ribellione, e il comune obiettivo di rimettere a fuoco quanto è successo e succede oggi in Afghanistan, che interroga la responsabilità di tutte e tutti.
Nel tragico agosto del 2021, queste donne hanno subito una frattura improvvisa delle loro vite: sono fuggite in vari e rocamboleschi modi, hanno perso relazioni familiari, posizioni di lavoro e di studio. Sono arrivate in Italia, paese di accoglienza che hanno scelto. A differenza di donne di altre nazionalità, le procedure di riconoscimento dello status di rifugiate sono state relativamente rapide, tuttavia a oggi il sentimento comune è quello di aver avuto una “concessione”, che però non ha apportato nulla di effettivo nelle loro vite in termini di diritti.
Tutte hanno lamentato una situazione di segregazione lavorativa, che le umilia profondamente e che riproduce la stessa discriminazione che hanno patito nel paese di origine: la riparazione che invocano è un riconoscimento rapido e omogeneo dei loro titoli di studio, l’inserimento lavorativo sulla base delle loro competenze, la possibilità di ricongiungimenti familiari allargati. Una di loro, Mahboba Islami, ha concluso così la sua testimonianza: “Non voglio buttar via tutti i miei obiettivi, ma se non riconoscono le mie competenze di medica, la mia laurea, la mia esperienza, non riconoscono la mia dignità”.
Sulla base delle testimonianze, la Commissione di ascolto cercherà di coinvolgere le istituzioni a livello locale e regionale, e di incalzare il Governo. Nel frattempo è nata una rete di donne afghane, di associazioni, in cui le protagoniste sono e saranno loro, coraggiose e risolute.
Il 28 giugno il tribunale è andato in trasferta a Casal di Principe come ospite della Cooperativa Eva: qui, hanno preso parola le operatrici, insieme a donne provenienti dall’Africa Sub sahariana, che hanno raccontato del regime di genere che costringe le giovani alla fuga per sottrarsi ai matrimoni forzati e alla violenza domestica. Non esistono percorsi di fuga sicuri per le donne, che si trovano così esposte alla tratta di esseri umani e a rotte migratorie connotate dalla minaccia di torture e dalla paura costante di perdere la vita.
Alcune, le più adulte, sono arrivate grazie a visti turistici e con voli per la Francia o la Spagna, raggiungendo poi Napoli in treno; altre, arrivate più recentemente, hanno attraversato il deserto e il mare, sopravvivendo alla traversata.
Tutte parlano di una società ancora razzista, ma che negli anni ha imparato a riconoscere il valore del loro lavoro di cura, per troppo tempo non pagato. Raccontano della forza e del cambiamento prodotto dall’incontro della pratica femminista dei centri antiviolenza e antitratta, grazie ai quali hanno ritrovato progettualità e la speranza di una vita libera. Le richieste principali riguardano rotte migratorie sicure, il ricongiungimento con i figli e le figlie lasciate nel paese di origine, un lavoro dignitoso e il riconoscimento del loro ruolo di agenti sociali di cambiamento.
Abbiamo discusso a lungo delle commissioni territoriali che esaminano le richieste di protezione internazionale, dei loro pregiudizi sulla credibilità delle richiedenti, di una sorta di voyeurismo sui particolari delle violenze che le migranti hanno subito, ma anche di forme di collaborazione con i centri contro la tratta. La cosa importante è raggiungere l’obiettivo dell’ottenimento della protezione internazionale e consolidare via via quell’ombrello di diritti, tanto più necessario in questi tempi così difficili.
Le prossime tappe saranno il 20 luglio a Palermo e in autunno in Emilia Romagna. Non ci fermiamo.