Non chiamatemi precaria

"Cosa intendi per domenica?". Una donna e la sua partita Iva

"Cosa intendi per domenica?" (Liberaria editrice, 2013) è una storia e tante storie. Un racconto da un mondo del lavoro più ricco di definizioni che di soldi: atipico, indipendente, precario, free lance, non standard, sfigato... Un mondo che interessa donne e uomini, più donne che uomini. inGenere.it ha chiesto a Silvia Bencivelli, autrice del libro, di regalarne un pezzetto alle nostre lettrici e ai nostri lettori. Eccolo, preceduto da una breve introduzione dell'autrice (in corsivo).

Detesto essere chiamata precaria. Non lo sono. Sono una partita Iva che guadagna poco, ma che fa un lavoro bellissimo, scelto, cresciuto e coccolato, nonostante le tante difficoltà che comporta. Lavoro per diversi clienti, e a volte lavoro per me stessa soltanto. Cerco di vendere le mie idee, di farmi pagare per scrivere e studiare: da dieci anni mi mantengo da sola in questo modo e ho uno stile di vita non proprio da nababbo, ma nemmeno così sfigato. E soprattutto sono orgogliosa del mio lavoro e per questo lo difendo nell’unico modo che conosco, cioè raccontandolo.
A volte, nel farlo, mi sono trovata a pensare che in questo paese ci sia un problema di
narrazione (come direbbe Vendola). Ascoltateci, prima di decidere che siamo vittime da compatire.


Sono a una manifestazione di lavoratori strani, lavoratori marziani genericamente scontenti. Sono qui a fare mille distinguo sulla piattaforma e mille precisazioni sul senso della mia presenza, come tutti. Perché nessuno, qui, rappresenta nessuno, per definizione.

Si avvicina una collega giornalista in occhiali da sole: immagino una giornalista dipendente regolarmente assunta da una solida testata nazionale, visto che ci guarda come se fossimo una tribù di aborigeni con l’anello al naso. Qualcuno le indica me e lei si avvicina con un taccuino in mano pronta a raccogliere storie per il suo servizio sul giornale di domani.
“La cosa più brutta che è successa nella tua vita professionale?” “Mah... direi...” “Da precaria, intendo. Cioè la cosa più brutta della tua precarietà”. “Guarda, io non sono propriamente precaria: sono una libera professionista. Alla Rai sono atipica, è vero, e non ho scelto io...” “No, voglio dire: qual è stato il momento più umiliante della tua vita professionale?”. “Beh… niente di drammatico, sul serio”. “E le ferie? Sono un miraggio, vero?” “Guarda, sono libero professionista: non puoi parlare di ferie. E poi lavoro per nove mesi all’anno, in Rai, per cui in realtà non è il tempo libero che mi manca. Semmai...” “Vabbè, ultima volta che sei andata in vacanza? Un sacco di tempo fa, immagino”. “No, a gennaio sono andata a Buenos Aires. Ma vuoi proprio che ti risponda: a Punta Ala con la nonna nel 1986? Perché non è vero, eh”.
“Ma da quant’è che lavori in Rai?” “Ho compiuto sette anni quest’estate”. “E non hai mai avuto un contratto vero, no?” “Guarda, ne ho due o tre all’anno di contratti: il problema è proprio quello. Sono contratti di consulenza anche se in realtà...” “Ma posso chiedere quanto ti pagano?” “Centocinque euro al giorno, lordi, su fattura, che poi ovviamente diventano la metà al netto, dal lunedì al venerdì e solo per nove mesi all’anno. Fatti i conti: viene meno di mille euro al mese. Comunque non tutti gli atipici prendono poco, eh, perché...” “Una miseria... come fai?”
Ora basta. Guardami in faccia e ascolta. Dannazione.

Senti, è importante e ci tengo: io sono una libera professionista per davvero, faccio un sacco di cose, non mi lamento della mia situazione economica né del mio lavoro, che è bellissimo e che difenderò coi denti finché campo. Sono qui perché il punto non è che cosa ci faccia io con la mia partita Iva. È che cosa ci fanno le aziende per cui lavoro, con la mia partita Iva. Perché tante di loro, pubbliche e private, chiedono di presentarsi come libero professionista ma poi trattano da dipendente, senza dare i diritti del dipendente né i vantaggi del libero professionista: per esempio, chiedono di stare lì dieci ore al giorno sacrificando gli altri lavori che uno potrebbe...”.
“Perché, scusa, tu fai altri lavori?”. “Al momento ho nove o dieci clienti con lavori in corso, da riaprire, da chiudere, da studiare...” “Dieci?! Non è possibile!” “È possibile: basta avere la dipendenza dall’indipendenza, le rapsodie, i sette sintomi e quelle cose lì. Sai, nessuno di questi lavori da solo sarebbe sufficiente a mantenermi e comunque a me piacciono. E poi, scusa: mi hanno fatto aprire la partita Iva e mi hanno trasformato in un’imprenditrice. Che cosa devo fare? Votarmi al sacrificio?!” “Dieeeeci lavooori tutti in-si-e-me e nessuuuuno rappre-sentaaa la svoltaaaa...”

C’è un problema di narrazione, in questo paese.
Per anni abbiamo raccontato i poveri precari dal loro (nostro) punto di vista. Anzi: dal punto di vista di ciascuno di loro (noi): gente che a quarant’anni (ormai i più anziani sono anche intorno ai quarantacinque) non può permettersi un mutuo, una vacanza, un figlio, un automobile nuova.
Problemoni, sì, ma molto personali.
E li abbiamo raccontati come se la società dovesse darci quello che fino a qualche anno fa veniva dato a tutti e che adesso non basta più. Cioè i soldi. Sotto forma di pensioni, mattoni, sicurezze, sanità e via discorrendo. Non si capisce da dove debbano saltare fuori, ma sembra che ci sia un’ingiustizia generazionale da sanare. Punto.
Io penso che tutto questo sia miope e persino un po’ piccino. Di sicuro controproducente.
Sono sempre più convinta che sia necessario provare ad alzare un po’ la testa. Per orgoglio, per farla finita coi pianti e per confrontarsi con la realtà da adulti. Ma anche perché alzando la testa si guarda più lontano.
Noi viviamo del nostro lavoro: è la nostra maturità, la nostra autonomia. Lo dobbiamo difendere per noi stessi, è vero. Ma dobbiamo ricordare che è persino qualcosa in più, perché con il nostro lavoro costruiamo il mondo.
Ognuno di noi costruisce un pezzetto di mondo e vorrei farne una questione di orgoglio che diventa responsabilità.
Il vero problema è che il nostro mondo è fatto solo di gente come noi. Ciascuno di noi è come un granello di sabbia in una montagna di sabbia. Ed è su quella sabbia che stiamo costruendo la nostra società, quella in cui vivremo tutta la nostra vita adulta e in cui cresceranno i nostri figli, se li avremo.
Allora basta lagnarsi per il posto fisso o per un contratto migliore. Perché quando tu avrai un posto incrollabile e sarai diventato un sassolino con l’illusione della stabilità in mezzo ai granelli di sabbia, non avrai guadagnato niente di vero. Precario sarà il medico che ti opererà di appendicite e poi lascerà la cartella clinica al precario successivo. Precari e incostanti saranno gli insegnanti dei tuoi figli. Precarie e incerte saranno la gestione del patrimonio culturale e ambientale. Precarie e fragili saranno l’università, la ricerca e l’innovazione. E tu, con la tua stabilità, potrai, al più, comprarti l’ultimo modello di cellulare. Contento?
Cioè: la nostra collettività sta diventando instabile, sabbiosa, e questo più che danneggiare ciascuno di noi come lavoratori ci danneggia come cittadini. E forse la nostra cittadinanza vale più del nostro conto in banca.
Io, che lavoro nel dorato mondo della comunicazione della scienza, sono come un idraulico e non trovo così insensato lavorare da libero professionista in un libero mercato. Ti servo? Mi chiami e mi paghi. Purché tu mi conceda davvero la libertà degli idraulici, va bene. Diventerò una precaria quando comincerai a pagarmi troppo poco, troppo male, a vincolarmi a te e a impedirmi di costruirmi una cultura.
Ma sta’ tranquillo: te lo impedirò. Te lo impedirò raccontando in giro come lavoro e per chi: perché so che il mio lavoro è utile e non serve solo a riempirmi le tasche. Te lo impedirò perché ho capito che difenderlo significa difendere il mercato, il pubblico, la scienza e in un certo senso la società tutta. E perché è così che mi sento finalmente adulta.

Silvia Bencivelli, Cosa intendi per domenica? Liberaria, 2013. Il libro si può acquistare on line qui