Lettureviolenza

L'economia politica
della violenza contro le donne

love does not mean abuse

Jacqui True ha scritto un libro in cui tesse le fila tra processi macroeconomici, relazioni internazionali, donne, prevenzione della violenza. Una critica al neoliberismo da una prospettiva economico-femminista.

Il libro di Jacqui True The Political Economy of Violence against Women si apre con una dedica significativa: “A tutte le persone che hanno difeso, difendono e difenderanno i diritti delle donne, in ogni luogo e in ogni tempo - per il loro coraggio e la loro temerarietà, e per non aver mai rinunciato ad aspirare ad una vita migliore per tutte le donne”. Nel testo l’autrice sviluppa un approccio economico di tipo femminista, capace di individuare i legami tra le diverse forme di violenza contro le donne, e i macro processi strutturali in ambito strategico, sia locale che globale – dall’ambito famigliare a quello transnazionale. In questo contesto, riesce a tenere conto dei processi di ristrutturazione economica, delle perdite occupazionali maschili, dei fenomeni di sfruttamento delle lavoranti transfrontaliere, della crescita del mercato sessuale nelle zone di libero scambio, della violenza sessuale legata ai conflitti armati e degli impatti deleteri, soprattutto per le donne, dei disastri naturali. Esempi sono tratti da varie parti del mondo: Sudafrica, Kenya, Repubblica Democratica del Congo, Cina, Mexico, Argentina, Europa dell’Est, Asia centrale, Haiti, Sri Lanka, Indonesia, Nuova Zelanda, Irlanda, Regno Unito, Stati Uniti e Islanda.

Che cosa accomuna tutti questi contesti? I fattori economici, ma non solo, che alimentano la violenza contro le donne (ben distinta per l’autrice dal più generale fenomeno di gender-based violence),[1] ossia:

  1. la divisione sessuale del lavoro all’interno della famiglia e nell’ambito dell’economia domestica;
  2. l’odierno contesto macroeconomico globale, nel quale le nuove forme di competizione capitalistica spingono alla ricerca di fonti sempre meno costose di lavoro (spesso lavoro femminile) e portano a deregolamentare i mercati di capitale;
  3. le identità contrapposte maschio/protettore e femmina/protetta associate con l’economia di guerra e con il militarismo.

L’analisi si snoda lambendo spesso altre discipline (antropologia, psicologia, demografia, ecc.) ma resta profondamente economica nel criticare il pensiero economico neo liberale, a causa del quale “la delocalizzazione delle industrie ha sconvolto le economie locali e drasticamente cambiato il mercato del lavoro, aumentando un'economia scarsamente regolamentata fatta di bassi salari e posti di lavoro precari, e attirando donne nel lavoro salariato, sia nel Nord che nel Sud del mondo, su una scala mai vista prima.” (p. 31)

L’autrice ricorda come l’Economist, nel 2006, abbia affermato che la maggiore presenza delle donne nel mercato del lavoro ha contribuito alla crescita economica globale negli ultimi due decenni più che l’effetto combinato della crescita della Cina, dell’India e della diffusione di Internet.[2] Tuttavia questo ha comportato un’intensificazione dei carichi di lavoro, sia retribuito che non retribuito, e la femminilizzazione della povertà, soprattutto tra le donne povere ed emarginate, a bassa qualifica, nei paesi in via di sviluppo, che non hanno accesso alle risorse produttive o ai servizi pubblici. Tale povertà, emarginazione, e mancanza di meccanismi di protezione rendono le donne facili bersagli per gli abusi e minano le prospettive per la loro emancipazione politica ed economica. Queste condizioni depauperizzano anche molti uomini, che possono reagire alla perdita di posti di lavoro e opportunità economiche - risultato della competizione globale -, riaffermando il loro potere sulle donne con la violenza.

Allo stesso tempo, le politiche neoliberiste hanno ridotto la capacità dello Stato di regolamentare e tassare il capitale, con una conseguente difficoltà nel sostenere la spesa per il welfare, che potrebbe alleviare la povertà delle donne e la loro vulnerabilità. In particolare, l’indebolimento del ruolo dello Stato nell’ambito della previdenza sociale, si è accompagnato a tendenze diffuse di presenza simultanea di attori non-statali, che hanno guadagnato potere e influenza nel dibattito pubblico. Questi attori offrono alternative per l'istruzione, la salute, la casa, e i servizi di assistenza sociale per i gruppi più poveri; allo stesso tempo, a volte per motivi religiosi, spesso oppongono resistenza e minano l'universalità dei diritti umani, e, in particolare, i diritti delle donne e la loro richiesta di libertà dalla violenza.

Un altro modo di inquadrare in termini economici la violenza contro le donne, è quello di calcolarne i costi, impliciti (costi opportunità) ed espliciti. Stime di questi costi sono state prodotte in diversi studi, a partire da quanto presentato nel 2006 nel rapporto redatto dal segretariato generale delle Nazioni Unite (In-Depth Study on Violence Against Women).

In termini di costi per le singole donne, la violenza impedisce loro di essere in grado di accedere alle opportunità economiche e alle prestazioni sociali. Diversi studi hanno dimostrato che le donne vittime di violenza domestica percepiscono in genere un minor reddito in tutta la loro vita rispetto alle donne che non sono state oggetto di violenza. Ad esempio, uno di questi studi in Nicaragua ha riscontrato che le donne vittime di violenza domestica hanno guadagnato solo il 57% del reddito delle loro colleghe non colpite dal fenomeno. In Bolivia, un'organizzazione femminile attiva in ambito rurale ha scoperto che non poteva distribuire equamente terreni agricoli tra donne e uomini, a meno che non fosse affrontato il problema della violenza domestica nell’ambito dei loro piani di sviluppo: era troppo frequente l'assenza di donne partecipanti, a causa di lesioni subite per via di violenza domestica.

I costi economici della violenza contro le donne sono notevoli sia per le imprese sia per lo Stato. Costi a carico dei sistemi giudiziari così come quelli relativi all'assistenza sanitaria, al sostegno occupazionale e alla bassa produttività sono stati ora calcolati in molti Stati, al fine di aumentare la consapevolezza del problema della violenza sulle donne e la necessità di combatterla. Ad esempio, nel 2009, il governo australiano ha stimato che la la violenza contro le donne costi allo Stato 13,6 miliardi di dollari all'anno. In un altro studio, nel Regno Unito, si è valutato che il costo annuo della violenza domestica equivale a più di 550 euro per abitante. Nel 2003, il governo della Colombia ha speso circa 73,7 milioni dollari (0,6% del loro bilancio nazionale) per prevenire, individuare e offrire servizi alle vittime di violenza domestica. Nelle Fiji, il costo della violenza domestica è stato calcolato in 300 milioni di dollari l'anno, pari a circa il 7% del prodotto nazionale lordo. Negli Stati Uniti, le misure prese per prevenire la violenza contro le donne nel Violence Against Women Act si stima che abbiano fatto risparmiare al paese 16,4 miliardi di dollari.

E' molto più difficile quantificare i costi della violenza contro le donne per un'intera società e il suo sviluppo, guardando anche alle generazioni future. Tuttavia alcuni studi hanno documentato l'impatto di questa violenza sui bambini delle donne vittime. Ricercatori in Nicaragua hanno riscontrato che i figli delle donne vittime di violenza domestica avevano una probabilità di morire prima dei cinque anni sei volte più elevata degli altri bambini, con un terzo di tutti i decessi infantili attribuibili a bambini in quella condizione.

La violenza domestica impedisce alle madri di prendersi cura delle loro famiglie, intrappolando le generazioni in un ciclo di povertà. L’abuso nei confronti di una moglie nel sud dell’India è stato collegato a un decremento della  possibilità di controllare le entrate familiari, con conseguenti ripercussioni per la salute e l'educazione delle generazioni future.

Mentre queste motivazioni economiche per porre fine alla violenza contro le donne hanno avuto successo, soprattutto nei paesi sviluppati, nell’incrementare la consapevolezza e i fondi governativi destinati ai programmi anti-violenza, e indubbio che ancora non aiutino le donne più vulnerabili nel Sud del mondo. La realizzazione dei diritti sociali ed economici per queste donne è una condizione immediata ed essenziale per eliminare la violenza prolungata e sistemica che sperimentano quotidianamente.



[1] Nel sottolineare la sua preferenza per l’uso del termine “violenza contro le donne”, l’autrice afferma: “Molti governi hanno scelto di adottare una terminologia gender neutral per parlare della violenza domestica nei confronti delle donne. Sfortunatamente, questa scelta tende a nascondere il fatto che donne e ragazze sono più a rischio di essere uccise o ferite dai loro partners che da parte di ogni altra classe di individui – evidenza empirica che viene confermata in studi effettuati in ogni contesto nazionale.” (p. 10)

[2] The Economist (2006), “Women in the Workforce - The Importance of Sex. Forget China, India and the Internet: Economic Growth is driven by Women”, 12 aprile.