Da oggi in libreria Separate in casa (Ediesse) un libro curato da Beatrice Busi dedicato all'alleanza possibile e necessaria tra lavoratrici domestiche e femministe

Separate
in casa

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Quali sono state le cause delle mancate alleanze tra organizzazioni delle lavoratrici domestiche e movimenti femministi? È possibile connettere la questione politica del lavoro domestico e di cura non retribuito a quella delle condizioni delle lavoratrici domestiche? Domande mai così attuali in un tempo in cui colf e badanti sono state tra le prime a perdere il lavoro e, lasciate senza reddito né assistenza, non hanno potuto far sentire la loro voce perché prive di forte organizzazione e alleanze politiche.

Il libro curato da Beatrice Busi Separate in casa. Lavoratrici domestiche, femministe e sindacaliste: una mancata alleanza, appena uscito per Ediesse, suggerisce degli spunti per cercar di rispondere a questi interrogativi situandoli nel contesto storico del femminismo degli anni ‘70, nonché della visione politica unitaria di lavoro produttivo e riproduttivo riattualizzata su scala mondiale dal movimento argentino Ni Una Menos.

Le controverse questioni teoriche, che negli studi femministi hanno lungamente accompagnato i concetti di riproduzione sociale e di lavoro riproduttivo e di cura e che in filigrana si possono leggere nella maggioranza dei saggi vengono in breve riproposte nei saggi di Alessandra Pescarolo e Alisa Del Re.

Pescarolo, evidenziandone le ambiguità concettuali, si interroga rispetto all’utilità delle categorie di riproduzione sociale e di lavoro riproduttivo per la valutazione economica e la valorizzazione del lavoro domestico di cura. Secondo l'autrice – e secondo una consolidata corrente di studi  il lavoro domestico di cura, in quanto produttivo di valori d’uso che implicano, oltre che le dimensioni quantitative dell’economia, anche dimensioni emotive riferite a relazioni personali necessariamente non trasferibili, richiederebbe criteri di valutazione basati sul benessere e sul soddisfacimento di bisogni primari, quali l’affetto. Diversi quindi, e non riducibili a categorie di misurabilità economica.

Viceversa, nell’impostazione femminista-marxista di Del Re, il lavoro riproduttivo, nella molteplicità delle sue forme – che si tratti di lavoro salariato o meno, di lavoro privato non retribuito o mercificato, oppure socializzato nei servizi pubblici, di lavoro domestico o di cura svolto da caregiver familiari o professionali, in quanto serve nella sua complessità a riprodurre e mantenere in vita esseri sociali – è indispensabile all’esistenza del lavoro salariato e del sistema capitalistico, ma non è assimilabile al modello di lavoro produttore di merci e di plusvalore. L’analisi di Del Re, mutuata anche dal pensiero di Nancy Fraser, fa discendere dalla intrinseca contraddittorietà tra riproduzione sociale e produzione capitalistica la strutturale sottovalutazione, marginalizzazione e femminilizzazione del lavoro riproduttivo, caratteri che in modi diversi lo accompagnano in tutte le sue forme.

Le categorie di riproduzione sociale e di lavori riproduttivi, sempre al centro del dibattito internazionale del femminismo marxista, sono un’eredità, a lungo criticamente rivisitata, delle elaborazioni delle femministe marxiste italiane degli anni ‘70 su cui ritornano vari scritti nel volume.

In quegli anni le analisi di Mariarosa Dalla Costa, fatte proprie dai gruppi di Lotta femminista, avviarono una dirompente revisione della nozione marxiana di riproduzione della forza lavoro, leggendo in modo innovativo i nessi fra lavoro produttivo degli operai nella fabbrica e lavoro domestico svolto a casa dalle donne considerato anch’esso produttivo di una specifica merce, la forza lavoro, e in quanto tale indispensabile all’accumulazione capitalistica. Da qui la richiesta, fatta propria dai Comitati per il salario al lavoro domestico, di retribuzione del lavoro domestico per tutte le donne e, in primis, per le casalinghe di classe operaia. Queste analisi ebbero una notevole risonanza internazionale per la pubblicazione su riviste inglesi del cosiddetto domestic labour debate focalizzato in larga parte attorno alle questioni cruciali se il lavoro domestico fosse misurabile in modo equiparabile al lavoro produttivo, se fosse o meno produttivo di plusvalore.

Parrebbe dunque quasi paradossale che un femminismo così impegnato a valorizzare il lavoro domestico, inserendolo nell’ambito dei valori economici, abbia potuto mancare di qualsiasi attenzione per le lavoratrici domestiche e le loro organizzazioni. Su questo mancato rapporto si interrogano diversi saggi (Gissi, Sarti), ripercorrendo pure alcune delle critiche già all’epoca formulate da altri settori del femminismo nei confronti delle teorie del movimento per il salario al lavoro domestico.

Discendeva dall’analisi del lavoro domestico come produttivo della merce forza lavoro l’assunto che considerava la casalinga in se stessa sempre una proletaria sfruttata dal capitale e dall’uomo padrone. Questa visione di Lotta femminista e dei Comitati per il salario non solo non permetteva di individuare le differenti figure sociali confusamente incluse nella idea di casalinga, ma soprattutto impediva di mettere a tema la relazione asimmetrica di relativo privilegio tra padrone/signore e lavoratrici domestiche accomunate nel segno del comune lavoro di riproduzione (Sarti).

In quegli anni, inoltre, nel movimento femminista era diffusa la convinzione che la figura della colf fosse destinata a scomparire, mediante il superamento del lavoro riproduttivo privato e la sua socializzazione nei servizi pubblici e la condivisione delle incombenze domestiche alla pari con gli uomini all’interno della famiglia. Per questo motivo neppure il femminismo sindacale fu in grado di mettere in campo una qualsiasi strategia nei confronti delle lavoratrici domestiche. Eppure i Coordinamenti donne interprofessionali e interconfederali erano nati proprio con l’obiettivo di scardinare i confini tra lavoro produttivo e riproduttivo e ridisegnare i confini della lotta sindacale al di là dell’orizzonte esclusivo dei lavoratori salariati, ponendo al centro della riflessione l’intersezione di genere, lavoro dipendente e lavoro domestico gratuito.

Nonostante ciò l’ibridazione tra rivendicazioni sindacali e politiche femministe si rivelò, però, molto difficoltosa (Frisone). Nelle divisioni interne rispetto al rapporto tra produzione e riproduzione risiederebbe, dunque, un ulteriore motivo del mancato incontro del femminismo sindacale con le lotte delle lavoratrici domestiche e con l’esperienza delle Acli-Colf. Da anni, infatti, questa organizzazione aveva portato avanti la battaglia per la sindacalizzazione e professionalizzazione delle collaboratrici familiari che, grazie a questa tenace azione, riuscirono nel 1974 a conquistare il loro primo contratto collettivo nazionale e i loro diritti basilari. La risposta delle famiglie italiane al “caro colf” derivante da queste conquiste fu il ricorso lavoro nero e alle migranti. Le colf italiane a ore iniziarono a subire la concorrenza della forza lavoro di riserva delle straniere, le quali, d’altro canto, iniziarono, già alla fine degli anni ‘70, a occupare i posti di domestica convivente che le italiane non erano più disposte a ricoprire.

La mancata ridistribuzione del lavoro domestico e di cura all’interno della famiglia nonostante il massiccio ingresso delle donne nel mercato del lavoro, nonché il progressivo invecchiamento della popolazione e la riduzione dei servizi pubblici, insieme con la femminilizzazione dei processi migratori accompagnati da un susseguirsi di provvedimenti legislativi specificamente destinati a regolamentare l’accesso al lavoro domestico degli immigrati (Sarti), hanno indotto quella trasformazione della società italiana che nella letteratura sociologica internazionale viene descritta come transizione da un family model of care a un migrant in the family model of care che ha consentito alle famiglie di contenere i costi di colf e badanti e sopperire al carente intervento statale.

La situazione attuale è perciò caratterizzata dall’ assoluta prevalenza di immigrate nel lavoro di colf e badanti (nel 2019 il 71% dei due milioni di occupate è straniero) sottoposte a una condizione lavorativa per lo più precaria, priva dei più basilari diritti e, per le coresidenti spesso servilizzata. Tra lavoratrici domestiche, native e migranti, e femministe è, tuttavia, continuata a mancare un’alleanza politica, a causa dei tardivi rapporti del femminismo con l’immigrazione femminile e forse anche per una postura classista di una parte delle femministe oppure, al contrario, ma con esiti simili, per un’enfatizzazione della sorellanza tra donne che ha occultato le dimensioni di potere della relazione di lavoro (Sarti).

Permangono oggi in forma diversa i nodi politici irrisolti delle lotte degli anni ‘70 e permane il dilemma tra l’insistenza sul riconoscimento e la valorizzazione economica del lavoro domestico e di cura gratuito e, d’altro lato, la sua professionalizzazione come chiave per una riorganizzazione del rapporto tra servizi di welfare e cura familiare.

La permanenza di questi irrisolti si ritrova nel programma del movimento "Non una di meno" e nella proclamazione dello sciopero femminista del lavoro di riproduzione globalmente inteso in tutte le sue forme. In questa prospettiva il movimento rivendica un reddito di autodeterminazione incondizionato, misura lungamente proposta con diversi nomi da una rete internazionale soprattutto quale antidoto alla precarizzazione del lavoro (Basic Income Earth Network). Non una di meno l’ha fatta propria e la rivendica non come retribuzione del lavoro domestico e di cura ma affinché questo lavoro venga riconosciuto come una delle attività che ogni uomo o donna possa liberamente scegliere per passione o amore tanto quanto ogni altra attività, quindi, come strumento che potrebbe sovvertire la divisione sessuale del lavoro e scardinare l’impianto sociale lavorista (Petricola).

Mentre la richiesta di salario al lavoro domestico rischiava di incatenare ancora di più le donne a quel lavoro, quella di un reddito incondizionato che garantisca ad ognuno/a le risorse economiche essenziali sembrerebbe aggirare quel pericolo e aprire spazi di libertà dal bisogno di un “lavoro purchessia” e dalla oppressiva costrizione dei modelli familiari dominanti, che si tratti di male breadwinner o dual-earner model.

Tuttavia, in quanto richiesta universalistica gender blind rappresenta, a mio avviso, non una promessa ma un fantasma di libertà per le donne, dal momento che non tiene conto delle disuguaglianze esistenti nel mercato del lavoro dove i gender gap nell’occupazione precarietà e retribuzioni, per non parlare dei ruoli consolidati, fanno facilmente prevedere che a stare a casa a svolgere i lavori domestici e di cura sarebbero le donne, soprattutto quelle con qualifiche professionali e salari più bassi, costrette, magari in nome del reddito famigliare, a rinunciare ad altre possibilità lavorative.

Il reddito di autodeterminazione non sradicherebbe la divisione sessuale del lavoro e nemmeno eliminerebbe il bisogno nella cura famigliare di specifiche professionalità che non necessariamente coincidono con l’affetto dei rapporti personali che pure è indispensabile. D’altro canto la forma di lotta dello sciopero globale della riproduzione, mentre rappresenta un tentativo di costruire un comune campo di lotta in direzione della ricomposizione politica delle molte figure che svolgono i lavori di riproduzione, corre il rischio di eludere ancora una volta quella che non è solo una differenza tra caregiver familiari e professioniste ma è anche un terreno di potenziale conflitto tra donne, conflitto che ha bisogno di esprimersi, esser riconosciuto e rappresentato in quanto tale.

L’organizzazione e la lotta delle lavoratrici domestiche per migliori condizioni di lavoro, accompagnate da interventi pubblici che ne riducano i costi per le famiglie, è un aspetto della lotta più generale delle donne e delle femministe – e non solo – per la completa ristrutturazione di tutti i servizi pubblici di welfare e la connessa rivalutazione dei lavori in essi implicati. Sono le stesse lavoratrici domestiche ad aver bisogno della riorganizzazione quantitativa e qualitativa dei servizi pubblici e del ripensamento del rapporto tra produzione e riproduzione che tanto ha impegnato il movimento femminista e che la “crisi della cura” nell’attuale epidemia ha reso improcrastinabile.

Beatrice Busi, Separate in casa. Lavoratrici domestiche, femministe e sindacaliste: una mancata alleanza, Ediesse, 2020