L'Italia della provincia produttiva, la crisi e la piccola impresa manufatturiera, il lavoro e le donne nelle officine attraverso gli occhi di un imprenditore con le mani grosse da operaio. La responsabilità di generare lavoro e qualità anche in tempi difficili, scommettendo sulle donne, l'esempio di Daniele Zanasi.

Il valore delle mele lucide

Daniele Zanasi è un uomo sui cinquanta anni. Gli occhi chiari che si piantano nei tuoi, senza tanti complimenti. La carnagione chiara. Un’aria nordica. Le mani ne raccontano la storia. Ha avviato l’attività alla fine degli anni ’70 con suo padre. Una piccola impresa metalmeccanica a conduzione familiare, nel cuore della laboriosa Emilia. Si è ritrovato al timone da solo quasi subito. In tutti questi anni ha portato avanti l’azienda con l’aiuto e il sostegno di sua moglie Lucia, fra momenti di grande successo e altri di profonda difficoltà. L’attività imprenditoriale, però, è solo una delle sue grandi passioni. L’altra è la politica, l’impegno civile. È “nel partito” da sempre. E oggi è consigliere comunale del PD a Castelfranco Emilia.

Ci incontriamo presso la sua torneria* in una giornata di pioggia battente di fine ottobre. Mi accoglie con grande cortesia, che lascia presto posto a un fiume di preoccupazioni. Solo due torni a controllo numerico sono in attività. Le produzioni in corso si concluderanno in circa due giorni. Dopo di che, anche quelle due macchine si fermeranno, se non arriveranno altre commesse. Mi dice che secondo lui la situazione è ben peggiore di quella verificatasi nel 2008. All’epoca, i piccoli imprenditori avevano ancora delle risorse accumulate con le quali far fronte alle difficoltà. Oggi, non hanno più nulla da parte. Molti sono gli imprenditori della zona che per non chiudere l’attività hanno dissipato tutte le risorse, arrivando a ipotecare la casa in cui vivono. Le banche non fanno credito a nessuno, troppo impegnate a salvare loro stesse. Un caro amico, un imprenditore, ha ricevuto una telefonata intimidatoria dalla banca: il conto aziendale era in rosso di 70 euro. Piccoli aneddoti di un uomo e di un imprenditore preoccupato.

Poi mi racconta un po’ di lui: del suo ruolo di consigliere comunale del PD a Castelfranco Emilia, del suo impegno nel partito, dei giovani che fanno fatica a riconoscersi nella politica, della sua grande passione per le maratone. Mi parla anche della sua unica figlia che studia biologia e che si augura possa trovare una strada lontano dalla torneria.

Cominciamo a parlare della sua impresa e delle lavoratrici. L’azienda nel complesso dà lavoro a una decina di dipendenti, di cui più della metà sono da sempre donne, impegnate in amministrazione e in produzione. Daniele Zanasi riconosce con grande franchezza la discriminazione che le donne subiscono sul lavoro nelle aziende meccaniche. Permane l’antico pregiudizio che le donne possano lavorare solo in amministrazione, ma non in posizioni di responsabilità. I clienti che telefonano in azienda non sono disposti a parlare con le donne che lavorano in amministrazione, certi che queste non siano in grado di interpretare i disegni destinati alla produzione. Daniele mi dice che durante un recente periodo di cassa integrazione tutte le lavoratrici della sua azienda hanno seguito corsi di formazione per l’utilizzo e la gestione di software preposti alla programmazione dei torni. Gli strumenti pubblici messi a disposizione per la crisi andavano sfruttati davvero, per prepararsi a ripartire con dei dipendenti più qualificati. La discriminazione contro le donne Daniele la osserva quotidianamente. Sono decenni che vede le donne cedere il passo agli uomini in officina. Questo tratteggia meglio di ogni altra possibile descrizione la situazione. I lavoratori uomini non reputano credibili le lavoratrici, non le reputano all’altezza, non le reputano capaci, le mal sopportano, le trattano con sufficienza.

Eppure, Daniele Zanasi sostiene che le donne lavorano meglio. Meglio, perché per farcela ci mettono un’intelligenza e una cura che gli uomini non applicano. I lavoratori sembrano meno capaci di descrivere il processo logico che li ha portati a determinate scelte, e prediligono procedure standard che difficilmente modulano al variare delle produzioni. Le lavoratrici, invece, sono in grado di spiegare il perché delle loro scelte e di offrire interpretazioni dettagliate sulle procedure. Soprattutto, ci mettono passione e determinazione perché è la loro occasione per mettersi alla prova e dimostrare di essere capaci, di potercela fare. Daniele Zanasi sostiene che è proprio questo approccio che fa la differenza, anche sul prodotto. E riferendosi proprio alla qualità del lavoro femminile, mi dice: “le loro mele sono più lucide. Lei sa quanto valore ha questo?” Mi racconta che le lavoratrici vanno spesso spronate, incoraggiate, imboccate. Nei primi tempi. Ma quando si rendono conto che ce la fanno, allora, diventano inarrestabili. E i sorrisi, che Daniele osserva comparire sui loro volti quando riescono nelle piccole sfide della produzione, sono la prova della tenacia impiegata nel conseguire i risultati.

Lo conduco a suon di domande su un terreno molto meno romantico. Gli faccio notare che le lavoratrici sono di fatto più onerose dei lavoratori. C’è la questione della maternità, che in ambienti di lavoro come quello metalmeccanico spesso non implica solo l’assenza legata al parto e alle prime cure, ma comporta anche, per un lasso di tempo ben più ampio, l’impossibilità di assolvere a pieno alle proprie mansioni perché fisicamente troppo gravose. A questo, si aggiunge il fatto che le lavoratrici possono essere più discontinue in termini di presenza a causa della mole di lavoro di cura che ricade sulle loro spalle.

Va da sé che i costi vivi della maternità sono sostenuti dall’Inps, che si sostituisce al datore di lavoro corrispondendo circa l’80% della retribuzione diretta. Va altrettanto da sé che questo è vero in linea di massima per la lavoratrici dipendenti e non per la totalità della forza lavoro femminile. Rimane il fatto, però, che l’assenza prolungata dal lavoro, legata anche all’impossibilità di assolvere la propria mansione perché fisicamente insostenibile durante la gravidanza, rappresenta per una piccola azienda un nervo scoperto. Una lavoratrice che per tutto l’arco della gravidanza è impossibilitata a fare fronte a determinate mansioni, che per almeno cinque mesi è in maternità, e che è soggetta a una certa flessibilità legata al lavoro di cura, è complessivamente più onerosa di un lavoratore uomo, anche per la necessità di formare chi la sostituirà sul luogo di lavoro. E, allora, chiedo provocatoriamente a Daniele Zanasi, perché non assumere solo o per la maggior parte lavoratori? Perché assumere le donne? Perché assumere delle giovani donne esponenzialmente più soggette a “certi rischi”? Da imprenditore, come fanno a tornare i conti e come possono essere sostenibili certe scelte?

Non può negare la realtà. Mi riferisce che in azienda c’è un’attrezzista donna che lavora con lui da diversi anni, nel corso dei quali ha dato alla luce due bambini. Di fatto, per l’azienda questo ha significato circa ventiquattro mesi di sospensione dell’attività di quella lavoratrice. E questi costi sono ricaduti pesantemente sull’azienda. Mi racconta che in passato si è ritrovato ad appendere alla porta dell’officina tre fiocchi contemporaneamente per festeggiare tre diverse nascite. Tre lavoratrici hanno partorito nel giro di poche settimane. In quel preciso frangente, la produzione, e quindi il fatturato, hanno subito un crollo. Alla mia domanda secca, però, Daniele Zanasi risponde che le donne lavorano meglio e che nonostante tutto, valutando i costi e i benefici, l’impiego delle donne è per lo meno sostenibile.

Ogni giorno si rende conto che le donne sono le uniche a farsi carico del lavoro di cura. Se i bambini stanno male, se i genitori o i suoceri hanno bisogno, se è necessario che qualcuno stia in casa per qualche ragione, sono sempre le donne a rinunciare al lavoro, anche quando i rispettivi compagni svolgono attività meno vincolanti in termini di orario. Castelfranco Emilia è un piccolo paese, tutti si conoscono.

Poi si ferma, mi guarda e mi dice che forse questi aspetti non dovrebbero emergere, altrimenti chi mai assumerebbe più le donne? Nessuno. Gli rispondo che proprio da questo genere di ricerche spero che si possa arrivare a una migliore conoscenza delle potenzialità del lavoro delle donne per costruire anche una più incisiva politica di welfare, di sostegno all’occupazione femminile e alle imprese che l’alimentano. Un sostegno che si possa articolare su una conoscenza della realtà e delle difficoltà. Forse dovremmo smettere di raccontarci che le lavoratrici rappresentano costi reali comparabili a quelli dei loro colleghi uomini. Altrimenti, non si spiegherebbe come mai viviamo in un paese in cui le donne sono, a parità di condizioni, più disoccupate, più precarie, meno pagate e ricoprono ruoli meno qualificati dei loro colleghi. Daniele Zanasi abbassa lo sguardo dubbioso, forse per la prima volta. Anch’io pianto lo sguardo sul tavolo subito dopo. Cade un silenzio amaro.

 

* La torneria è un’officina meccanica dove si effettua la tornitura, un processo di produzione industriale che permette, grazie all’asportazione di materiale (truciolo), di realizzare dei pezzi a simmetria rotazionale come ad esempio viti, cilindri e alberi per motori navali.

Nota all'articolo

Questo incontro si inserisce nelle attività del progetto di ricerca di Officina Emilia “Il lavoro delle donne nella meccanica”, coordinato dalla dottoressa Maddalena Vianello con la supervisione della professoressa Margherita Russo. Officina Emilia è un progetto di ricerca-azione dell’Università di Modena e Reggio Emilia rivolto al miglioramento del sistema dell’istruzione e della formazione. Un particolare ringraziamento viene rivolto a Daniele Zanasi per la sua disponibilità in merito a questa pubblicazione.


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