Le inedite modalità di relazioni e le novità nella vita di tutti i giorni che le nuove tecnologie comportano, studiate da una sociologa del Massachusetts Institute of Technology   

Emozioni tecnologiche - Sherry Turkle

di Paola Di Cori

Come, e con quanta intensità, le nuove tecnologie ci hanno cambiato la vita e il nostro modo di pensare? e come influiscono sulle relazioni che stabiliamo con gli altri e con il mondo esterno? Quali emozioni suscitano in noi gli oggetti che usiamo nella quotidianità e quelli con cui lavoriamo? Sono domande che da qualche decennio hanno trovato una serie di stimolanti ipotesi interpretative nelle analisi di una brillante studiosa che insegna studi sociali di scienza e tecnologia presso l’MIT di Boston, dove ha fondato nel 2001 un laboratorio d’avanguardia, il “MIT Initiative on Technology and Self”, di cui è direttrice.

Nata a Brooklyn (N.Y.) nel 1948, con studi superiori compiuti al Radcliffe College e a Harvard, dove ha ottenuto il dottorato in sociologia e psicologia della personalità nel 1976, Sherry Turkle ha trascorso lunghi periodi in Francia, svolgendo ricerche per la tesi, divenuta in seguito un libro su Jacques Lacan e la rivoluzione francese di Freud. La sua formazione e i successivi sviluppi di ricerca l’hanno portata in poco tempo a collocarsi all’incrocio di tre aree disciplinari assai diverse: l’etnografia, la psicologia, l’informatica. L’eccezionale abilità nell’analisi etnografica costituisce un filo rosso che percorre le sue pubblicazioni riguardanti l’aspetto soggettivo della relazione che sviluppiamo nei confronti delle tecnologie informatiche; un tema chiave per altre studiose femministe, come Donna Haraway, pionieristica autrice del famoso Manifesto Cyborg (1985), Brenda Laurel o A.Rosanne Stone.

Dopo The Second Self (1984), sugli effetti dell’uso di computer nell’apprendimento infantile, in Life on the Screen (1996) Turkle analizza un cambiamento fondamentale: il passaggio - dai primi personal computer degli anni Settanta e il PC dell’IBM del decennio successivo, che erano “aperti, ‘trasparenti’, potenzialmente riconducibili ai relativi meccanismi sottostanti” - allo schermo con le icone introdotto dai Macintosh nel 1984, le quali “presentavano al pubblico delle simulazioni (le cartelline, il cestino, la scrivania) che non offrivano alcun suggerimento su come poter riconoscere la struttura sottostante”. E’ così che abbiamo imparato a giudicare le cose attraverso l’interfaccia e a spostarci verso una cultura della simulazione, dove le persone si abituano a sostituire la realtà con delle rappresentazioni. In un lavoro più recente – Alone Together (2011) – Turkle approfondisce alcune conseguenze negative di queste interazioni, il crescente processo che ha portato milioni di individui a vivere un rapporto privilegiato con apparecchiature audiovisive e telefoniche, e la conseguente tendenza all’isolamento e all’indebolimento del rapporto con altri e altre.

Negli ultimi anni ha curato due raccolte che includono i contributi di giovani ricercatrici/tori del MIT intorno alla intensità delle relazioni che ciascuna/o di noi intrattiene con oggetti di ogni genere - Evocative Objects. Things We Think With (2007) e The Inner History of Devices (2008). Antropologi, musicisti, scienziate, architetti, analizzano cosa lega ciascuna/o a una radio, una macchina da dialisi, la forma geoide, un violoncello, il pendolo di Foucault, un cellulare, e  molto altro; nei saggi che accompagnano questi lavori, Turkle sostiene che “lungi dall’essere dei compagni silenziosi, gli oggetti avvolgono la conoscenza di libido”. 


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