Le storie di Lilian Braun, autrice di romanzi gialli che hanno per protagonisti una coppia di gatti siamesi e un giornalista di bell'aspetto, sono l’equivalente di una tisana profumata e rilassante che invita di continuo al sorriso

Gialli siamesi - Lilian Jackson Braun

di Paola Di Cori

Questa prolifica autrice di 29 romanzi gialli con protagonisti due gatti siamesi e il loro proprietario – il giornalista Jim Qwilleran – è morta quasi centenaria pochi anni fa. Viene ingiustamente relegata alle scritture di "serie b" per il tono generale che caratterizza i suoi libri: non drammatico, non violento o angoscioso, tanto meno intellettualistico. Se in un libro di Patricia Highsmith si trovano rappresentati con accurata maestria le dinamiche della paranoia e del sadismo, e in quelli di Ruth Rendell la mente criminale viene descritta come fosse una ecografia di pulsioni omicide spiegata ai profani, le storie di Lilian Braun sono l’equivalente di una tisana profumata e rilassante che invita di continuo al sorriso.

Giornalista originaria del Massachusetts, visse a lungo in Michigan, dove diresse la rubrica “Good Living” del quotidiano Detroit Free Press fino al 1978. In precedenza scriveva annunci commerciali per i grandi magazzini. Ebbe due mariti: il giornalista Paul Braun, e dopo la morte di quest’ultimo, l’attore Earl Bettinger, più giovane di lei di una decina di anni. Con quest’ultimo, dedicatario di tutti i suoi romanzi, insieme a due gatti, si stabilì per 32 anni a Tryon nel North Carolina, una cittadina che nel 2010 contava poco più di 1600 abitanti.

La serie felina - “the cat who… – ebbe inizio nel 1966 con The Cat Who Could Read Backwards, al quale si affiancarono successivamente Il gatto che mangiava i mobili e Il gatto che accendeva il registratore. Seguirono molti anni di silenzio, essendosi l’autrice rifiutata di adeguare il proprio stile al clima di grande violenza che ormai cominciava ad affermarsi nel genere. Soltanto nel 1986 Braun mise mano nuovamente alle vicende relative ai siamesi, al ritmo sostenuto di un volume l’anno, ottenendo un duraturo successo fino all’incompiuto The Cat Who Smelled Smoke.

Lo sfondo che incornicia l’intera serie è una inesistente contea di Moose, “400 miglia a nord di ogni dove”, e Pickax City, un paese di tremila abitanti dove si è trasferito Jim Qwilleran, giornalista di mezza età e di bell’aspetto proveniente da un passato avventuroso e poco felice a Chicago, raggiunto da una improvvisa eredità di cui beneficerà l’intera cittadina. Responsabile di una rubrica di elzeviri - “dalla penna di Qwill” - presso il locale “Moose County Something”, convive con la coppia di Koko e Yum Yum. Il primo “era un animale intelligente, dotato di sensi molto sviluppati, assai superiori a quelli degli esseri umani e degli altri gatti”; diversa è la sua compagna Yum Yum, femmina vezzosa e seduttiva. La contea è teatro di eventi misteriosi e di omicidi, e Qwilleran trova immancabilmente i responsabili aiutato dall’eccezionale fiuto di Koko, il quale anticipa delitti e fornisce indizi risolutori concentrandosi sui tanti oggetti sparsi per la casa che lui rompe o sposta di luogo con la zampa, dai telefoni ai dizionari e libri gettati per terra. L’uomo e il gatto giocano infatti continuamente.

“Funzionava così. Il gatto cacciava le unghie tra le pagine e Qwilleran apriva il volume secondo queste indicazioni, leggendo ad alta voce gli esponenti, cioè le due voci in neretto in cima alle colonne. Leggeva la pagina destra se Koko usava la zampa destra. Di solito, però, si trattava quasi sempre della pagina sinistra. Koko era portato a essere mancino”.   […] “Negli ultimi tempi aveva dato segni di gelosia nei confronti del telefono. Tutte le volte che Qwilleran parlava nel ricevitore, Koko gli slacciava le stringhe oppure azzannava il filo dell’apparecchio”.

La simpatica presenza felina è in realtà l’aspetto meno originale della saga. Ben più interessante è la descrizione degli abitanti di Pickax; una piccola comunità relativamente benestante, isolata e autosufficiente, impegnata in elaborati riti sociali che vede tutti quanti coinvolti in attività a dir poco sconclusionate: sagre paesane, anniversari di poco conto riscoperti al fine di imbastire adeguate cerimonie, inaugurazione di edifici pubblici, cori paesani e produzioni teatrali. Il notevole spirito di osservazione di Lilian Braun, esercitato negli anni trascorsi a comporre articoli di costume e di arredamento alla moda, si esplica nei dettagli spesso esilaranti con cui descrive le assurdità dei restauri, il gusto eccentrico degli abiti e le propensioni al ridicolo cui si abbandonano i compaesani nello sforzo per dare un senso a qualcosa che chiaramente non ce l’ha.

“Una sfinge di bronzo sosteneva una lastra di marmo bianco sulla quale era posato un candelabro a diciassette braccia. …c’erano uno scrittoio di ebano decorato in oro e un telefono stile francese su un piedistallo dorato. Accostato alla parete di fronte, non si poteva fare a meno di notare un grande armadio di legno dalle raffinate venature. “Quell’armadio Biedermeier – spiega l’arredatore - apparteneva alla famiglia e siamo stati costretti a usarlo. Le pareti e il tappeto sono di un verde prezzemolo e le poltrone si possono definire color fungo. Quanto alla casa, è spagnola e risale al 1925”. 


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