Il disegno di legge Cirinnà, in votazione al senato, non riguarda solo le unioni civili. Ecco cosa prevede a proposito di convivenze di fatto tra persone non vincolate da rapporti di parentela, né di matrimonio tradizionale o civile
Convivenze di fatto,
cosa prevede il ddl Cirinnà
Sono due le direttrici del disegno di legge Cirinnà in votazione al senato e che dovrebbe determinare un’evoluzione importante nel nostro ordinamento. Da una parte, gli articoli da 1 a 10, introducono l’unione civile come una specifica formazione sociale parallela al matrimonio, che può essere instaurata anche tra due persone dello stesso sesso. Dall’altra, gli articoli da 11 a 23, regolamentano la convivenza di fatto tra persone di sesso diverso o dello stesso sesso, entrambe maggiorenni, unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, ma non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile.
Per quanto riguarda la regolamentazione delle convivenze di fatto, il testo introduce un istituto particolarmente innovativo: il contratto di convivenza, che rappresenta una novità, meno prorompente sotto il profilo dell’evoluzione sociale, ma sicuramente più interessante sotto quello tecnico-giuridico. Si tratta, infatti, di una figura giuridica che per la prima volta consentirebbe a una coppia, legata da vincoli stabili di affezione reciproca, di regolare in piena libertà[1] i “rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune”. Sul possibile contenuto del contratto in oggetto, l’articolo 19 del disegno di legge dispone che questo possa “prevedere le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo; nonché il regime patrimoniale della comunione dei beni (modificabile in qualunque momento nel corso della convivenza)” e che debba “essere ricevuto da un notaio in forma pubblica”.
Uno strumento contrattuale che renderebbe possibile regolare privatisticamente una materia finora priva di disciplina, alternativa a quella sostanzialmente inderogabilmente discendente dal matrimonio. Il contratto in esame avrà le caratteristiche proprie degli accordi privatistici, sarà pertanto modificabile in ogni momento, con possibilità di rimodularne i termini al mutare delle condizioni di vita dei soggetti che ne sono parte; risolubile, a seguito del verificarsi di alcune cause specificatamente previste dal disegno di legge, in quanto incompatibili con la natura e con gli scopi dell’accordo (quali la sopravvenienza del matrimonio o l'unione civile tra le parti, o di una delle parti con un terzo) o anche semplicemente per recesso unilaterale di un contraente.
Ciò che la norma non prevede né predispone è l’aspetto, per così dire, sanzionatorio, legato al venir meno di uno dei partner stipulanti agli obblighi assunti con il contratto di convivenza. Per ogni caso verrà quindi valutata l’eventualità di inserire apposite pattuizioni in materia. Naturalmente, posto che per gli obblighi di natura morale non sono auspicabili forme di prescrizione di natura privatistica – non dimentichiamo che alla base della convivenza c’è una comunità di intenti e reciproca affezione – altri aspetti più strettamente patrimoniali potranno probabilmente essere rafforzati con la previsione, ad esempio di una clausola penale.
Allo stesso modo, sarà da valutare – ma con ogni probabilità la risposta dovrà essere affermativa – se possano rientrare nel contratto di convivenza anche pattuizioni relative alla regolamentazione della fase di cessazione della convivenza stessa. Si tratta di indagare se sarà quindi possibile, ad esempio, prevedere l’insorgenza di obblighi particolari a seguito dello scioglimento del contratto, ovvero - ancora a titolo esemplificativo - di porre specifiche prestazioni a carico del contraente che decida di recedere dal contratto, o comunque di far cessare la relazione/convivenza. In merito a questa indagine potranno fornire valido spunto la tradizione in materia di accordi prematrimoniali, previsti ad esempio in alcuni ordinamenti anglosassoni.
Riguardo alle convivenze di fatto non regolate da apposito accordo, il testo predispone alcune conseguenze automatiche di estremo rilievo. In caso di morte del proprietario della casa, luogo della coabitazione, infatti, il convivente superstite avrebbe il diritto di abitazione per due anni o per un periodo pari alla durata della convivenza, se superiore a due anni, e comunque fino a un massimo di cinque. In caso di figli minori o di figli disabili del convivente superstite coabitanti, si avrebbe una tutela maggiore, ossia il diritto di abitazione si protrarrebbe per un periodo non inferiore a tre anni. La cessazione del diritto di abitazione si avrebbe nel caso in cui il convivente superstite non abitasse più stabilmente nella casa di comune residenza o in caso di matrimonio, di unione civile o di nuova convivenza di fatto. La disposizione prevede inoltre la facoltà per il convivente di fatto di succedere nel contratto di locazione della casa di comune residenza nel caso di morte del convivente proprietario o di suo recesso dal contratto.
Tali previsioni sembrano porsi in linea con quegli orientamenti giurisprudenziali che, in caso di morte di un convivente proprietario esclusivo di un immobile, riconosce in capo al convivente superstite “una detenzione qualificata”[2].
In caso di cessazione della convivenza di fatto, ove ricorrano i presupposti di cui all’articolo 156 del codice civile - obbligo di mantenimento nel caso in cui il coniuge separato non disponga di adeguati redditi propri -, l’articolo 15 dispone che il convivente abbia diritto di ricevere dall’altro quanto necessario per il suo mantenimento per un periodo determinato in proporzione alla durata della convivenza. Al comma 2, poi, l’articolo 15 riconoscerebbe nell’ipotesi in cui uno dei due conviventi versi in uno stato di bisogno e non sia in grado di fare fronte al proprio sostentamento, il diritto agli alimenti, dovuti per un periodo determinato in proporzione alla durata della convivenza.
Il disegno di legge in votazione al senato introdurrebbe nell’ordinamento una nuova tipologia di obbligazione alimentare, che si differenzia da quella contenuta nel codice civile, principalmente sotto il profilo dei presupposti soggettivi e della durata.
A differenza della obbligazione alimentare civilistica la cui durata è sottoposta ai cambiamenti dei presupposti soggettivi e oggettivi prescritti dalla legge, con conseguente cessazione o modifica dell’importo, a seconda delle vicende che si verificano, l’obbligo alimentare con riguardo alle convivenze di fatto recherebbe quindi una durata “predeterminata”, in quanto commisurata alla pregressa durata della convivenza.
Altra novità particolarmente innovativa, quella contenuta nell’articolo 16, con il quale il testo introdurrebbe poi l’articolo 230 ter del codice civile, il quale disciplina i diritti del convivente nell’attività di impresa. La nuova disposizione riconoscerebbe al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente, il diritto di partecipazione agli utili commisurata al lavoro prestato.
Il testo andrebbe quindi a colmare un vuoto legislativo che ha condotto la giurisprudenza sino a oggi a negare la possibilità di un’interpretazione analogica dell’articolo 230 bis del codice civile in tema di impresa familiare ai casi di mera convivenza o di famiglia di fatto.
L’articolo 17 modificherebbe poi l’articolo 712, secondo comma, del codice di procedura civile inserendo fra i soggetti che devono essere indicati nella domanda per interdizione o inabilitazione, anche il convivente di fatto. A quest’ultimo verrebbe attribuita la facoltà di essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno del partner dichiarato interdetto o inabilitato o che presenti i requisiti per l’amministrazione di sostegno. In proposito, è opportuno osservare come ai sensi dell’articolo 408 del codice civile il giudice tutelare sia chiamato a nominare in via preferenziale quale amministratore di sostegno, tra le altre, la persona stabilmente convivente.
L’articolo 18 prevede che in caso di decesso del convivente di fatto, derivante da atto illecito di un terzo, nell’individuazione del danno risarcibile alla parte superstite trovino applicazione i medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite. Tale disposizione recepirebbe quindi, di fatto, orientamenti giurisprudenziali consolidati - seppure ovviamente con riguardo a convivenze come avviene nel matrimonio eterosessuali - riconoscendo una tutela solo di tipo risarcitorio, inizialmente in riferimento ai soli danni morali subiti dal convivente come avviene nel matrimonio, e successivamente anche con riguardo al danno patrimoniale.
Con queste disposizioni, e con quelle previste in materia di unioni civili, si amplia quindi il ventaglio di scelte con cui regolamentare e tutelare la vita di coppia, con l’obiettivo di eliminare incertezze, e soprattutto trattamenti discriminatori, nonché possibili contrasti nascenti dalla mancanza di una direzione precisa, in merito ad alcuni aspetti fondamentali della convivenza. Andando ancora oltre, l’auspicio è che proprio dalla predisposizione di simili strumenti possa alimentarsi una nuova e maggiore propensione a costituire nuclei familiari stabili, in un paese in drammatica crisi di natalità e, in senso più lato, di identità.
NOTE
[1] Fermi naturalmente i limiti fondamentali afferenti la liceità e non contrarietà all’ordine pubblico e al buon costume.
[2] Si veda ad esempio la sentenza 18 gennaio 2003 del tribunale di Milano. È inoltre opportuno ricordare che, in forza della sentenza n.404 del 7 aprile 1988 della Corte costituzionale, è stato riconosciuto al convivente come avviene nel matrimonio il diritto a succedere nel contratto di locazione al convivente deceduto, inquilino di un immobile urbano a uso abitativo.