Come diventare
femminista
Priya Basil ci consegna un pamphlet che chiama in causa innumerevoli autrici ma anche le donne della sua famiglia, in un coro che nutre una lotta comune: quella contro la violenza di genere
Non si tratta di una ricetta, né di una guida. Priya Basil – nata a Londra nel 1977 da una famiglia di origini indiane, cresciuta in Kenya e oggi di nuovo tra l’Inghilterra e Berlino, tra le fondatrici della piattaforma internazionale Authors for Peace e i cui romanzi sono stati tradotti in otto lingue – si muove piuttosto tra il personale è politico e il politico è personale, con andamento osmotico tra tracce di vita – sua, di sua madre, della nonna e di altre – e valenze politiche di questi vissuti, tra scelte che hanno ripercussioni sulla vita delle donne e delle soggettività non previste dal sistema dominante.
Un pamphlet che chiama in causa innumerevoli autrici, politiche, donne – Virginia Woolf, Hannah Arendt, Donna Haraway, Judith Butler, Ilary Clinton, di nuovo sua madre, la nonna Mumji, solo per nominarne alcune – da altrettanti posizionamenti e molteplici vissuti, in un coro che nutre (nel conflitto) una lotta comune: quella contro la violenza di genere.
Di nuovo una riflessione sulla violenza sulle donne e di genere: a cosa serve?
Serve a dire che non abbiamo ancora finito di averci a che fare. Ma serve anche a disegnare continuità e differenze, tra generazioni, tra soggetti che subiscono violenza, tra luoghi e forme in cui questa ancora si manifesta. Serve quindi a imparare a riconoscere la violenza, nelle sue molteplici forme. Serve, infine, come vuole Basil, a diventare femminista per combatterla assieme.
A tracciare un filo rosso nella narrazione è il movimento. Quello evocato sopra tra personale e politico, politico e personale, tra generazioni e tra contesti, che ha come effetto quello di nominare, a tratti mostrare, che la violenza ci riguarda tutti.
La madre e la nonna Mumji l’hanno vissuta in modo differente, forse con strumenti diversi, che nel vissuto e nella relazione con l’autrice hanno determinato anche presenza e atteggiamenti, vissuti che richiedono a volte di starsi accanto con una forma di cura differente, a volte più rivendicativa altre più sommessa ma non meno radicale. Fare la spola tra l’una e l’altra, “credendo fosse possibile stare dalla parte di entrambe”, per poi rendersi conto che si sta dalla stessa parte e che si può stare in bilico tra l’essere femministe qui e là – dice l’autrice –, stare dalla parte di “lei” a volte subendo il maschilismo dei compagni per non sovrastarla.
“Significa soffocare parti di sé, sottoporsi a sforzi eccessivi, sfigurare, cacciarsi in situazioni impossibili, ma le donne sopportano contorsioni atroci, sfoggiano acrobazie strabilianti. Ci sono donne così abili a destreggiarsi che ci aspetteremmo che la loro presenza fosse più efficace: ma non può cambiare molto le cose, perché per troppi uomini la presenza delle donne serve solo a fare effetto; per farli sentire o apparire migliori, non per migliorare le condizioni di tutti”.
La sensazione di sentirsi impotenti, finché non si pensa al potere in termini differenti.
Il #MeToo ha aperto un varco, questo è innegabile, ha liberato valanghe di voci e di denunce, anche se non ha potuto sostituire la presenza delle donne, nella loro carne, dato che queste voci si dispiegato soprattutto in forma virtuale, facendoci sentire inevitabilmente anche “sole” in questa rete di pixel e codici.
Domandarsi se e perché essere femministe oggi ha a che vedere con tutta la molteplicità dell’esistente, e con tutte le forme della violenza che rende le donne subalterne. Il mercato del lavoro, il divario salariale tra uomini e donne, quello ancora più grave delle pensioni, gli stereotipi che sono ovunque, fino alle molestie e alla violenza sessuale: “il tranello del capitalismo” dice Basil. Le crisi economiche, del 2008, del 2012 e poi quella della pandemia da Covid-19 che inevitabilmente ha toccato più le donne che gli uomini.
Ma anche una certa tradizione culturale che codifica i desideri, e indebolisce e isola chi vuole essere madre, per esempio, perché ci si ritrova imbrigliate in rappresentazioni di buone madri e cattive madri.
E tuttavia, l’autrice lascia emergere anche una dimensione di gioco, che racconta i soggetti senza che siano passivi: una possibilità che si dà quando si lasciano parlare le vite. “Come sto? Chiedeva immancabilmente mia nonna, Mumji, quando ci vedevamo. Era la controparte di un’altra sua domanda insistente: cos’hai mangiato? Quest’ultima le dava la possibilità di nutrirti, saziarti, viziarti – per poi crogiolarsi nel suo appetito, interpretando ogni boccone come un elogio, persino quando ti tenevi la pancia tra le mani, rifiutavi di mangiare altro e pentivi di aver ceduto al suo banchetto. Come sto? Dava a te la possibilità di nutrirla, saziarla, viziarla – di complimenti, che per lei non erano mai abbastanza”.
In questa commistione di pensiero sul presente ed esperienza di relazioni trova posto allora forse la migliore possibilità per sconfiggere tutte le forme di violenza: quella di costruire una genealogia di donne non subalterne, ma combattenti, che come fiumi carsici hanno sempre trovato un modo per ricavarne qualcosa per sé. Serve a dire “l’ho imparato attraverso di te”.
Priya Basil, Come diventare femminista, il Saggiatore, 2022