L'Italia è un paese composto per la maggior parte da aree interne, lontane dalle dinamiche delle grandi città. Un'indagine sulla normativa che dovrebbe favorire la rappresentanza e la partecipazione delle donne alla vita pubblica in questi luoghi

Fuori dalle
grandi città

di Michele Barone

È compito della Repubblica rimuovere ogni condizione di marginalità che, di fatto, si verifichi nel territorio nazionale, tanto rispetto all’accesso ai servizi essenziali – sanità, istruzione, lavoro (o, in caso di disoccupazione incolpevole, strumenti di protezione sociale), cultura, solo per menzionarne alcuni – quanto alla partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del paese.

Questo compito, solennemente affidato alla Repubblica dalla Costituzione non sempre viene svolto fino in fondo. L’Italia, infatti, è composta per gran parte da aree interne, porzioni di territorio che si trovano a una distanza significativa dai “poli”, ossia da quei centri in cui servizi essenziali e partecipazione sono garantiti al massimo livello.

Un chiaro esempio di marginalità rispetto alla partecipazione all’organizzazione politica è offerto dal tema oggetto di queste brevi considerazioni: la mancanza di garanzia effettiva della pari opportunità, per entrambi i sessi, di accesso alle cariche elettive nei comuni piccoli – con popolazione tra i 5.000 e i 15.000 abitanti – e piccolissimi – con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti.

Infatti, in relazione ai primi è previsto l’obbligo di assicurare "la rappresentanza di entrambi i sessi" nelle liste dei candidati al consiglio comunale, in modo che nessuno dei due venga rappresentato "in misura superiore ai due terzi dei candidati"; per i secondi, invece, la legge dispone soltanto l’obbligo – che vige in generale – di garanzia di rappresentanza di entrambi i sessi, senza la fissazione di alcuna soglia: basta, dunque, la presenza di un solo candidato di sesso diverso da quello maggiormente rappresentato.

Tali obblighi, tuttavia, non sono presidiati da alcuna sanzione efficace. Nel primo caso, in effetti, qualora i candidati di un sesso superino la soglia dei due terzi del totale, la Commissione elettorale mandamentale procede alla riduzione della lista "cancellando i nomi dei candidati appartenenti al genere rappresentato in misura eccedente i due terzi dei candidati"; quando, però, per riportare il numero dei candidati appartenenti al genere più rappresentato entro la soglia fissata occorre cancellarne così tanti che il numero complessivo dei componenti della lista diventa inferiore a quello minimo prescritto per l’ammissione alla competizione, la conseguenza non è che la lista venga ricusata – come sarebbe lecito e logico attendersi e com’è d’altronde previsto per i comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti – ma, invece, che l’operazione di cancellazione debba arrestarsi una volta raggiunta tale soglia minima di ammissibilità. Da ciò, ad avviso della Corte costituzionale, deriva la conseguente possibilità di elusione non solo – com’è evidente – della regola che prevede la soglia massima dei due terzi dei componenti della lista prescritta per i candidati appartenenti a ciascun sesso, ma anche della stessa regola generale relativa alla necessaria rappresentanza di entrambi i sessi: la presentazione di liste composte da candidati di un solo sesso resterebbe priva di ogni sanzione.

Per i comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti la situazione non cambierebbe nella sostanza, non essendo prevista alcuna “soglia minima” di rappresentanza di ciascun sesso e non essendo la regola della rappresentanza di entrambi i sessi presidiata da alcuna sanzione.

Una simile differenziazione della normativa in materia di composizione delle liste nell’ambito del processo elettorale comunale, basata sul numero di abitanti dei comuni, può ritenersi giustificata?

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