Lettere a inGenere. Sesso e competenze

C’è un ritornello molto comune in Italia che fa più o meno così: “Basta con questa storia di [eleggere, nominare, assumere] una donna solo perché è donna — non conta il sesso, ma la competenza”. L’esempio più recente: Elly Schlein, candidata alla presidenza del Pd, ha annunciato che il 70% dei suoi capilista per l’Assemblea nazionale del partito erano donne — un gesto coscienzioso e carico di importanti conseguenze, che prevedibilmente è stato accolto da uno stuolo di recriminazioni, perlopiù a firma maschile, su come “conta il merito, non il genere”.

Ma è sufficiente evocare qualche numero per capire che questa argomentazione non solo non trova riscontro nella realtà, ma è una vera e propria rinuncia di responsabilità che affligge il nostro paese in maniera molto grave e profonda.

Secondo l’Indice sull’uguaglianza di genere dell’Unione europea, l’Italia rimedia un fantastico ultimo posto per avanzamento delle donne in campo professionale — il 31% di noi ha un impiego rispetto al 51% degli uomini — ed è sotto la media Ue (ultima tra i paesi europei membri del G7) in quanto a potere economico, politico e sociale delle donne che, esempio di disuguaglianza tra i tanti, rappresentano appena un terzo dell’attuale Parlamento guidato dalla destra.

Seguendo la somma logica popolare del “contano le competenze”, sembra proprio che noi femmine italiane siamo meno abili e capaci dei maschi. Eppure gli ultimi dati Istat rivelano che tra le donne, il 65% ha almeno un diploma (23% le laureate), rispetto al 60% degli uomini (17% i laureati). Nelle prove Invalsi, le ragazze ottengono risultati sistematicamente più alti dei compagni maschi a tutti i gradi di istruzione, dalla scuola primaria a quella secondaria (unica eccezione la matematica — che coincidenza, in un mondo in cui le discipline scientifiche garantiscono stipendi più alti di quelle umanistiche. Nulla è un caso quando si tratta di disparità di genere — finché l’informatica era un dominio femminile, gli stipendi erano miseri; ora qui negli Stati Uniti un neolaureato in scienze informatiche, generalmente maschio, entra nel mondo del lavoro con un salario base a sei cifre).

L’italiota argomentazione del “contano le competenze, non il sesso del candidato”? Distrutta, disintegrata alle fondamenta da questi dati. Siamo di fronte a un problema culturale, sistematico, strutturale, per cui questa argomentazione non è altro che l’ennesimo modo di spogliarsi della responsabilità di [eleggere, nominare, assumere] una donna, prima o poi. L’Italia è piena di donne competenti, ma gli italiani continuano a non eleggerle, a non assumerle per quel posto di lavoro, a non promuoverle per incarichi più alti e meglio retribuiti, a non far loro condurre Sanremo, a non guardare le loro partite di calcio, a entusiasmarsi in maniera rozza e volgare per i loro corpi e mai per le loro teste, a prenderle in giro perché siedono sole tra gli uomini nella carrozza executive di un Frecciarossa Bologna-Milano, come se non avessero ragione di essere lì (è successo alla sottoscritta qualche anno fa, durante un viaggio di lavoro).

L’anno scorso, in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica, scrissi a Concita De Gregorio de La Repubblica in risposta a un suo commento in cui osserva, giustamente, che “non basta dire donna”. È vero, non basta dire donna per eleggere un presidente o formare un governo che si impegni davvero per i diritti delle donne. A noi italiani infatti basta dire Giorgia Meloni — donna che vuole per sé pronomi al maschile e il cui partito di estrema destra ha già presentato mozioni antiabortiste — per capire che non è proprio questo il caso. Tuttavia, obiettai a De Gregorio, la frase “non basta dire donna” mi crea grande disagio in un contesto nazionale ancora così profondamente misogino e sessista, perché viene interpretata come “non dobbiamo fare nulla per eliminare le barriere di genere” invece di ciò che davvero significa (“non è una qualunque donna al potere che eliminerà queste barriere”). E quindi, come già detto, diventa una scusa per non prendersela neanche lontanamente, la responsabilità di eleggere (o nominare o assumere) una donna.

Nello stesso momento in cui a inizio 2022 in Italia si (ri)eleggeva il Capo dello Stato, qui negli Stati Uniti al presidente Joe Biden spettava il compito di nominare un nuovo giudice della Corte suprema. Portai questo esempio a De Gregorio (e mi cito perché tanto direi la stessa cosa oggi): “Già in campagna elettorale Biden aveva promesso che, avuta l’occasione, avrebbe nominato la prima giudice nera alla Corte suprema. Così si sta impegnando a fare a partire da oggi. Ora, sicuramente ‘non basta dire donna nera’ — ma da qualche parte dovremo pure cominciare, e con certezza Biden saprà individuare la candidata giusta per questo ruolo, senza sacrificare competenza, esperienza, autorevolezza, attitudine alla carica istituzionale per il puro gusto squisitamente progressista di nominare una donna nera (guarda caso questa è una precisazione che facciamo sempre e solo sulle donne — ‘donna non è sufficiente, l’importante è che sia competente’ — quando di uomini incompetenti sono pieni i seggi)”. De Gregorio non mi ha mai risposto (e ci mancherebbe), ma il mio punto di vista non è cambiato, anzi — più assisto alla desolazione e alla cecità del pensiero italiano su questo argomento, più le mie convinzioni in merito si evolvono, si radicano, si rafforzano.

“Contano le competenze, non il sesso” è una rinuncia di responsabilità. È il rifiuto di assumersi il compito, il dovere di impegnarsi per superare le disparità di genere, fingendo che non siano un problema o addirittura che non esistano. I numeri di cui sopra parlano chiaro: o eleggiamo, nominiamo, assumiamo concretamente delle donne come strumento stesso per eliminare le barriere all’elezione, alla nomina, all’assunzione, oppure non succederà mai. C’è chi dirà che è un artificio, ma non lo è. Al contrario, è l’unica strada, perché è azione vera, è il compimento reale di una promessa tanto fatta e poco mantenuta.

E quindi brava Elly Schlein con la sua maggioranza di capolista donne. Io ho votato per lei alle primarie del Pd (e spero un giorno alle elezioni politiche) non solo perché è competente, ma anche perché è donna, soprattutto perché è donna. Perché nel suo essere donna non solo ha merito, ma incarna la realizzazione — finalmente! — della responsabilità che dobbiamo prenderci come paese per remunerare il merito femminile dandogli concretamente dello spazio.

In Italia, frasi come “contano solo le competenze”, “importa solo il merito” e “non basta dire donna” sono solo pallide scuse per continuare a non dirlo mai, donna, a non riconoscere mai le nostre competenze e il nostro merito. E questo è un guaio gravissimo e una cocciutaggine tutta italiana, che potrà essere superata solo rovesciandone l’aspetto culturale — il fatto che è così radicata nel nostro modo di pensare che ci impedisce di vedere la realtà per quello che è, e per i cambiamenti di cui necessita.

Enrica Nicoli Aldini

(Foto: Francesco Pierantoni/Flickr)


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