La trappola dell'Italia fatta in casa
La trappola dell'Italia
fatta in casa
Alesina e Ichino hanno ragione: il lavoro di uomini e donne in famiglia e nel mercato andrebbe bilanciato meglio. Ma hanno torto, quando attribuiscono tutto il familismo al Sud. E finiscono con una ricetta sbagliata: meno asili e meno tasse
L’Italia “fatta in casa” è una trappola? Sostanzialmente sì, soprattutto per le donne, secondo Alberto Alesina e Andrea Ichino, autori del fortunato libro [2] dallo stesso titolo.
Al centro del libro la produzione di valori economici fuori dal mercato, nelle case, tema oggetto di un lungo impegno di ricerca da parte di molte donne economiste, ma finora piuttosto trascurato dagli uomini economisti (1).
La produzione di valore nelle famiglie italiane è insolitamente ampia, se confrontata con quella degli altri paesi occidentali, sia di indirizzo più “socialdemocratico” (quelli scandinavi) sia di indirizzo più liberista (gli Usa). Che sia più ampia è provato dal maggior volume di ore di lavoro familiare, prestato soprattutto dalle donne – a causa del basso tasso di occupazione femminile - e anche dagli anziani (soprattutto le anziane) grazie a un’età di pensionamento piuttosto bassa.
Questa produzione domestica rende il nostro Paese molto più ricco di quanto suggerirebbero le classifiche del Pil: il sottotitolo del libro recita “indagine sulla vera ricchezza degli italiani”, e il messaggio veicolato è il grande valore prodotto nelle famiglie italiane, messaggio indubbiamente più “allettante” rispetto a quello che deriverebbe semplicemente dal lamentare l’eccessivo carico di lavoro familiare. Ricalcolando il Pil procapite di quattro paesi (Italia, Norvegia, Usa e Spagna) con l’inclusione del valore prodotto dal lavoro familiare, secondo gli Autori la posizione dell’Italia migliorerebbe in misura sostanziale, scavalcando la Spagna e riducendo la distanza che ci separa da Stati Uniti e Norvegia.
La ricchezza tuttavia non è solo tale, perché Alesina e Ichino la ritengono all’origine di alcuni cronici mali nazionali: dipendenza protratta dei giovani da famiglie troppo protettive, ricerca del lavoro e dell’università sotto casa, regolazione del mercato del lavoro finalizzata al mantenimento del modello familiare, infine un costume nazionale molto incline all’illegalità: tutti mali che si manifestano con particolare gravità nel Mezzogiorno.
Tuttavia il libro, che tra l’altro è scritto molto bene, non riesce a convincere del tutto né nell’analisi né nelle proposte.
L’analisi. Il passaggio dall’eccesso di lavoro familiare al “familismo amorale [3]” appare un po’ disinvolto, degno più di un pamphlet (quale in fondo il libro ambisce ad essere, sia detto senza alcuna connotazione negativa) che di un lavoro scientifico. Infatti non viene dimostrata una precisa relazione causale fra i diversi temi, che sono semplicemente “accostati”, in base ad intuizioni e suggestioni, senza verificare che esista fra loro una precisa relazione di causa ed effetto: si passa dal familismo amorale alle analisi di Robert Putnam sulla tradizione civica nelle diverse regioni, alla demografia.
Però non tutto “si tiene”, come pensano gli Autori. Cominciamo col ricordare che Montegrano, il paese dove Banfield elaborò negli anni ’50 il suo modello di “familismo amorale”, era un paese della Lucania, la stessa regione dove Putnam, quarant’anni più tardi, riscontrò i più alti “rendimenti istituzionali” fra le regioni del Mezzogiorno.
Insomma, il “familismo” potrebbe anche essere “morale”, come affermano anche gli Autori, ma la moralità o l’immoralità non è certo causata dall’intensità dei vincoli familiari, come loro sostengono, e tanto meno è misurata dalla quantità di ore di lavoro familiare. Azzardo l’ipotesi che la moralità potrebbe risiedere nel non contrapporre le solidarietà del piccolo cerchio familiare con quelle più ampie, verso il proprio Paese e anche, perché no, verso l’umanità. Ad esempio in Giappone i vincoli familiari sono molto forti, come anche la lealtà verso il proprio Paese, ma il sentimento di comune appartenenza all’umanità è invece debole: in questo caso paradossalmente si potrebbe parlare di un civismo “amorale”. Insomma, è l’esclusività del vincolo, non l’intensità, che ne limita la “moralità”.
Il libro analizza le ore di lavoro familiare uniformate dal data base del Centre for Time Use Research dell’Università di Oxford [4]. I valori italiani non vengono mai distinti fra Centro-Nord e Mezzogiorno. Questa sarebbe stata una prova importante delle teorie degli Autori sul Mezzogiorno. Lo avrebbe invece consentito la ricerca Istat sull’uso del tempo del 2002-2003 [5], che abbiamo utilizzato qui sotto:
Questi dati non sono rigorosamente comparabili con quelli usati da Alesina e Ichino: cambia la classe di età, che per i dati Istat include anche giovanissimi e molto anziani, abbassando di conseguenza le ore prestate pro capite, che sono 4,84 in A. e I, e solo 3,19 nella nostra tabella. Dai dati Istat emergono rilevanti sorprese: anzitutto la durata del lavoro familiare è la stessa in tutte le ripartizioni, con riferimento al totale della popolazione (uomini e donne): verrebbe quindi a mancare la prova della maggiore intensità di lavoro familiare nel Mezzogiorno, e del supposto “familismo” (almeno così misurato).
Ciò che cambia – e non poco - è la distribuzione del lavoro familiare fra uomini e donne: le donne fanno più lavoro familiare scendendo da Nord a Sud, gli uomini ne fanno di meno. Di conseguenza, la differenza nel lavoro familiare fra i due sessi, che supera di poco le 3 ore nel Centro Nord, sale a 4 ore nel Sud e a 3 e ¾ nelle Isole.
Ancora sul Mezzogiorno. Mi permetterei di osservare che i nostri economisti, soprattutto se nordici e abituati a girare il mondo, dovrebbero frequentare di più il nostro Sud. Finalmente si accorgerebbero che di Mezzogiorno non ce n’è solamente uno, quello del familismo amorale e della corruzione, ma anche quello dei tanti meridionali che si impegnano contro tutto questo. Oltre che denunciare il primo, è assolutamente necessario rendere più visibile e più forte il secondo, anziché rimuoverlo o censurarlo, come già fanno quelli che vogliono che tutto resti così com’è (2).
Tra l’altro è proprio quello che i due autori propongono in altra sede , come “proposta morale” ai meridionali: “la responsabilità deve essere personale”, mai sparare nel mucchio. Ottimo principio, ma perché non applicarlo anche al Mezzogiorno? Certo, la ricerca richiede delle generalizzazioni, non è la pedagogia. Però guardare alle differenze (e ce ne sono) all’interno del Mezzogiorno, sarebbe buona norma anche per i ricercatori.
Per esempio, si dice che a Sud i giovani siano più “mammoni”, ma come spiegare il fatto che i ragazzi meridionali più brillanti, appena la famiglia se lo può permettere, frequentano l’università lontano da casa, in misura certamente maggiore rispetto ai ragazzi del Centro-Nord? E che tutto questo porta un inevitabile impoverimento al territorio d’origine, privato proprio delle energie più vitali e innovative?
Le proposte. Il libro propone un No e un Sì. Il No è agli asili nido pubblici, definiti “un mito”, che ben potrebbero essere sostituiti dai servizi per l’infanzia offerti dal mercato. Gli Autori sostengono che la presunta scarsità di servizi pubblici per l’infanzia da sola non spiega la bassa occupazione femminile, perché lavorano poco anche le donne senza figli o quelle con figli grandi. Basterebbe quindi che le donne disponessero di più potere d’acquisto per comprare i servizi di cui hanno bisogno nelle diverse situazioni(3).
Tuttavia proprio la nascita dei figli, anche del primo figlio, è un momento estremamente “critico” nella vita delle donne, che le espone al forte rischio di una transizione (per lo più involontaria, e spesso definitiva) dal lavoro all’inattività (4). Inoltre l’Italia non raggiunge la media europea nella dotazione di servizi per l’infanzia, e non si vede perché conservare questa specificità nazionale. Lo studio comparativo [6] sui servizi per l’infanzia in 30 paesi europei del Gruppo di esperti coordinato da Janneke Plantenga, utilizzando una definizione di “formal childcare arrangements” che include tutte le tipologie di servizi pubblici e privati, arriva a stimare per l’Italia un tasso di copertura intorno al 25% dei bimbi da 0 a 2 anni(5) . L’Istat invece calcola un tasso di copertura dell’11,7% (età 0-3 anni, 2006) attribuendo un peso differenziato alle forme di servizio secondo il loro grado di istituzionalizzazione (“presa in carico ponderata [7]”) (6).
Mentre la prima fonte permette di confrontare fra loro i diversi paesi, la seconda consente di apprezzare le differenze territoriali [8] dentro i confini nazionali: si va dal 16% del Centro Nord (con un massimo in Emilia, Toscana e Val d’Aosta) al 4,3% nel Mezzogiorno, con un minimo del 2% in Campania e Calabria. Questo indicatore fa parte degli “obiettivi di servizio” assegnati alle quattro regioni dell’obiettivo “convergenza” dei fondi strutturali europei 2007-2013 (Campania, Puglia, Sicilia e Calabria) con un target del 12% da raggiungere entro il 2013 (7).
Sull’effettiva disponibilità di servizi privati alla famiglia è lecito nutrire qualche dubbio: se abbondano colf, badanti e baby sitter, meno frequenti – specie nel Sud - sono le strutture organizzate che offrono servizi qualificati: per carenza di domanda, perché tanto ci pensa la famiglia? O anche per carenza di offerta? E si può pensare a qualche politica (pubblica) che aiuti a far nascere un’offerta qualificata (anche privata)?
Il Sì del libro è alla detassazione del lavoro femminile, accompagnata preferibilmente da una riduzione della spesa pubblica (8). Una proposta teoricamente accettabile, ma che si scontra con le condizioni attuali della finanza pubblica. E una soluzione non del tutto nuova, perché c’è una lunga storia italiana di fiscalizzazione degli oneri sociali per l’occupazione femminile – che è la stessa cosa dal punto di vista dei costi per l’impresa - senza che gli effetti siano stati grandiosi, almeno a giudicare dal punto in cui siamo. Molto diversa comunque dal “quoziente familiare”, non meno costoso, che oggi riscuote tanti consensi trasversali, e che – prevedendo una minore tassazione delle famiglie monoreddito – si risolverebbe nella maggior parte dei casi nella minore tassazione del reddito maschile
Dopo aver massacrato il libro, concludo con una frase (pag. 79) che mi trova assolutamente d’accordo: “Quale che sia la quantità desiderata di “Italia fatta in casa”, forse (ma qui toglierei il “forse”) sarebbe più giusto ed efficiente bilanciare meglio quanto uomini e donne producono in famiglia e nel mercato”.
Note
(1) Fra tutti, ci limitiamo qui a menzionare i lavori di Antonella Picchio (a cura di) “Unpaid Work and the Economy. A Gender Analysis of the Standards of Living”, Routledge 2003 e il saggio di Francesca Bettio e Paola Villa “ A Mediterranean perspective on the breakdown of the relationship between participation and fertility” in Cambridge Journal of Economics, 1998, 22: 137-171.
(2) Considerazioni non dissimili sono contenute nel saggio di Mario Alcaro “La favola del “familismo amorale” del Sud”, in Critica Marxista, n.6, nov-dic. 2009
(3) Da segnalare l’intervento [9] di A.Ichino su lavoce.info, in cui chiarisce ulteriormente la sua posizione, e la risposta [10] di D. Del Boca e A. Rosina.
(4) Secondo l’indagine campionaria sulle nascite del 2002, “all’inizio della gravidanza, il 58,8 per cento delle madri era occupata. Si tratta di circa 309.000 donne, delle quali il 20 per cento non lavora più al momento dell’intervista. La probabilità di lasciare o perdere il lavoro è influenzata sia dall’area di residenza delle madri che dal numero di figli avuti. Risiedere al Nord o al Centro comporta una maggiore probabilità di continuare a svolgere il proprio lavoro dopo la nascita dei figli, al contrario le madri del Mezzogiorno risultano decisamente più svantaggiate, soprattutto se sono al primo figlio: il 30 per cento di esse, un anno e mezzo dopo la nascita, non ha più un’occupazione (contro il 17 e il 21 per cento rispettivamente nel Nord e nel Centro)”: Istat, Avere un figlio in Italia [11], 2006.
(5) The provision of childcare services - A comparative review of 30 European countries , Janneke Plantenga and Chantal Remery, European Commission’s Expert Group on Gender and Employment Issues (EGGE), march 2009 (vedi in particolare pag. 30)
(6) si veda l’intervento di Chiara Saraceno “Perché è così difficile avere dati certi sui nidi in Italia?” [12] su neodemos.it
(7) Gli asili nido comunali sono a pagamento, anche se le rette coprono solo una parte (molto variabile) dei costi. Segnaliamo l’indagine di Cittadinanza attiva [13], che raccoglie i dati per tutti i capoluoghi di provincia: per una famiglia tipo il campo di variazione si situa fra il massimo di Lecco (572 euro) e il minimo di Cosenza (110 euro).
(8) pag. 82: “se non fosse possibile compensare questa riduzione del gettito fiscale con tagli alla spesa pubblica, che sarebbero benvenuti in Italia, dove tale spesa è molto alta e spesso inutile, lo si potrebbe fare aumentando un po’ le imposte sui redditi maschili”.