La città delle donne, oggi
Marina c’è stata davvero nella città delle donne, quella originale del film di Fellini: faceva la comparsa, interpretava se stessa, una giovane femminista zoccoli e gonna, sinceramente convinta che tutte le donne sono belle, anche quelle con le rughe, e ogni donna è giovane. Dove sono finiti oggi questi slogan? E il discorso pubblico, la discussione sull’uso del corpo femminile? Quanta consapevolezza c’è in giro, quali scelte sono davvero tali, nell’uso del proprio corpo da parte delle donne? Il filo conduttore tra le lotte di ieri e la situazione attuale, - fatta di corpi immaginati, iper perfezionati dalla pubblicità e da uno sguardo esterno, spesso patinato – cerca di riallacciarlo Chiara Sambuchi nel docu-film “La città delle donne, oggi”, che a trent’anni di distanza riprende il titolo felliniano per estrapolare un tema, il rapporto attuale delle donne con il corpo. Seguendo questo filo rincontriamo Marina, che oggi è ginecologa e spiega alle donne prossime al parto com’è che avverrà la nascita e le ascolta parlare di sentimenti quando vanno a chiedere la pillola. Marina continua a lottare come allora, ma con l’amarezza che “ne uccide più la violenza domestica che il cancro alla cervice uterina, per cui continuo a fare test tutti i giorni”. La ricerca di alcuni modi specifici di vivere la femminilità imbarca la regista in un viaggio per l’Italia, in un paese in cui lo sguardo sul corpo femminile ha ben poche sfaccettature e un solo genere di riferimento, quello maschile, anche quando in realtà proviene da una donna, così che il numero di Vogue con modelle dalle forme molto più rotonde del solito punta quasi tutto sul nudo (perché sennò come mostrare la loro femminilità, la loro dimensione sexy, argomenta Franca Sozzani). Immersi in questo immaginario patinato o da cartellone pubblicitario, come lo vivono il proprio rapporto con il corpo quelle donne che con l’immagine, e con la fisicità, ci lavorano? E che tipo di sguardo hanno, loro, sul corpo femminile? C’è ad esempio Mary, aspirante attrice costretta a vivere della pubblicità di completino sexy, che rivendica il suo modo di vivere la femminilità, senza rinunciare alla sensualità e senza per questo dover accettare di rimanere stasera ché poi una particina si trova. Oppure c’è il percorso di Claudia Koll, ha fatto successo facendo spettacolo del proprio corpo e oggi si è rifugiata in un percorso opposto, in cui tenta di insegnare ai più giovani che hanno anche altro da valorizzare. Poi c’è Katja, ex coinquilina di Ruby e attraverso quest'ultima sfiorata dagli scandali delle "cene eleganti", rimandeone però ai margini, molto poco illuminata. Lei è forse quella che più di tutti ha nel suo corpo la sua gabbia, lei che di mestiere fa la cubista ma vorrebbe che sua figlia, se un giorno ne avesse una, possa studiare ed evitare di fare la ragazza immagine come lei. Poi c’è l’ex insegnante che racconta di come ha recuperato la sua tenerezza solo con l’amore mercenario, diventando prostituta, ed è la storia di Tenera Valse, autrice del memoir Portami tante rose. Ma c’è anche la chirurga estetica che parla di solitudini, delle tante galassie di solitudini che portano a rincorrere affannosamente la perfezione fisica. Sembrano infinite le vie in cui il corpo e la femminilità possono essere mortificati o esasperati, e anzi, non è che la voglia di affermasi, di farsi largo e farsi valere nella società degli uomini, abbia in realtà significato per le donne rinunciare a qualcosa della loro femminilità, o della loro fisicità? E tanto per fare un esempio c'entra il fatto che di figli se ne fanno ormai così pochi? La traccia di fondo del documentario affiora chiara alla fine, nella dimensione personale dell’incontro della regista con le donne della sua famiglia.
(gina pavone)