Un film non nuovo a giudicare dalla regia generale: riduzione delle tutele subito, ammortizzatori sociali poi. Qualche apertura all'incentivazione del lavoro femminile e al sostegno della conciliazione. Misure da non perdere di vista al momento del dibattito parlamentare
Il piano del lavoro
del governo Renzi
Fra le misure previste dal nuovo governo, una parte rilevante è assorbita dal Jobs Act, un piano del lavoro composto da un decreto legge (D.L.), che interviene sul contratto a termine e sul contratto di apprendistato, e da un disegno di legge (ddl) che conferisce al Governo apposite deleghe finalizzate ad “introdurre misure per riformare la disciplina degli ammortizzatori sociali, riformare i servizi per il lavoro e le politiche attive, semplificare le procedure e gli adempimenti in materia di lavoro, riordinare le forme contrattuali, migliorare la conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita”.
Queste misure devono essere viste insieme alle altre promosse dal neo-governo, come la riduzione delle tasse sui redditi bassi, di cui si sta molto parlando. Sembra infatti che il governo Renzi abbia deciso di non scontentare né quelli che sostengono che la disoccupazione è causata dal fatto che le imprese non assumono perché non c’è domanda per i loro prodotti, né quelli che sostengono che la disoccupazione dipende dalla “rigidità” del mercato del lavoro, cioè dalla resistenza dei datori di lavoro ad assumere per paura di non poter più licenziare. Al partito dei primi sono rivolti gli sgravi fiscali per le famiglie a reddito basso, che faticano ad arrivare a fine mese, e quindi spenderanno subito quello che trovano in più in busta paga[1]. Al partito della rigidità del mercato del lavoro si offre invece, con effetto immediato, il decreto legge, un atto normativo adottato dal Governo per ragioni di urgenza che entrerà in vigore immediatamente dopo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale[2]. E sono molte le critiche rivolte alla cosiddetta “semplificazione” dei contratti a termine e del contratto di apprendistato[3]. Se infatti l’ulteriore de-regolazione dei contratti a termine vuole incentivare le imprese ad aumentare la domanda di lavoro nella prospettiva di un aumento dei consumi e di una possibile ripresa, peggiora ancora di più la situazione di precarietà dei lavoratori, soprattutto quelli più giovani, rimandando al futuro (con il disegno di legge delega) l’apprestamento di adeguati ammortizzatori sociali.
Si delinea così la solita politica dei due tempi, che già era stata praticata in occasione dell’introduzione di un’altra grande riforma del mercato del lavoro, la legge Biagi: la “semplificazione” (leggi: la riduzione delle tutele) subito, gli ammortizzatori sociali, cioè il sostegno a chi perde il lavoro, poi. Come nel caso della legge Biagi, il “poi” rischia di non venire mai, perché richiede di risolvere il problema della copertura finanziaria. Si legge infatti che da questi decreti attuativi non devono derivare "nuovi o maggiori oneri" a carico della finanza pubblica; per la loro attuazione si deve provvedere attraverso una diversa allocazione delle risorse, umane e finanziarie, già disponibili. Oltre al problema della copertura finanziaria, già pesantemente ipotecata dai provvedimenti d’urgenza, si devono considerare anche i diversi ostacoli che si frappongono fra l’annuncio delle misure e la loro attuazione: innanzitutto il ddl delega indica solo le linee generali degli interventi e sposta il confronto in Parlamento, dove andrà discusso e approvato. Una volta entrato in vigore, il governo avrà sei mesi per adottare i decreti attuativi. La maggiore flessibilità del mercato del lavoro non accompagnata dell’introduzione contemporanea di misure di sostegno per i lavoratori (indennità di disoccupazione per tutti, salario minimo si traduce in una carneficina sociale. Questo è particolarmente vero per la componente femminile che, some sappiamo, è già più presente di quella maschile tra i lavori atipici e il lavoro autonomo.
a) introdurre un’indennità di maternità a carattere universale, che copra cioè anche le lavoratrici che versano contributi alla gestione separata; b) garantire, alle lavoratrici madri parasubordinate, il diritto alla prestazione assistenziale anche in caso di mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro; c) abolire la detrazione per il coniuge a carico ed introdurre il tax credit, quale incentivo al lavoro femminile, per le donne lavoratrici, anche autonome, con figli minori e che si trovino al di sotto di una determinata soglia di reddito familiare; d) incentivare accordi collettivi volti a favorire la flessibilità dell’orario lavorativo e l’impiego di premi di produttività, per favorire la conciliazione dell’attività lavorativa con l’esercizio delle responsabilità genitoriali e dell’assistenza alle persone non autosufficienti; e) favorire l’integrazione dell’offerta di servizi per la prima infanzia forniti dalle aziende nel sistema pubblico –privato dei servizi alla persona, valorizzando le reti di servizi. |
È alla luce di queste considerazioni che va valutata una delega che ha una rilevanza diretta per l’occupazione femminile. Si tratta della “Delega in materia di conciliazione dei tempi di lavoro con le esigenze genitoriali”. (Nel riquadro le diverse linee di intervento, come diramate dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali).
L’obiettivo esplicito di questa delega è evitare che le donne debbano essere costrette a scegliere fra avere dei figli oppure lavorare. Gli aspetti considerati sono diversi: dall'estensione dell'indennità di maternità a tutte le categorie di lavoratrici fino ad una maggiore flessibilità degli orari. Si indica anche la possibilità di abolire la detrazione per il coniuge a carico e di introdurre un credito d’imposta (tax credit) come incentivo al lavoro femminile. Temi questi che abbiamo discusso diffusamente su InGenere.
Linee programmatiche molto generali, come si vede, e nessuna a costo zero. Eliminare le diversità di indennità per la maternità tra lavoratrici dipendenti e le autonome (iscritte alla gestione separata) o parasubordinate è questione di pochi spiccioli, anche se si vuole allargare la platea delle beneficiarie[4]. Ma non è questo il caso delle altre misure che, nell’auspicare flessibilità dell’organizzazione del lavoro e maggiori servizi per l’infanzia, ricalcano quelle previste da piani precedenti per l’occupazione femminile, come il piano Intesa 1 del Ministro Carfagna nell’ultimo governo Berlusconi, il Piano nazionale per la Famiglia del ministro Riccardi nel governo Monti , Intesa 2 con Fornero ministro delle Pari Opportunità. Tutti piani che hanno ottenuto pochi risultati per il rapido succedersi dei governi e, soprattutto, per mancanza di fondi. Copertura finanziaria e la normativa già approvata sul contratto di lavoro non lasciano dunque molte speranze: per quanto avanzate possano essere le politiche di maternità[5], le giovani donne dovranno sempre fare i conti con la possibilità di almeno tre anni di precariato (si veda l’articolo della Saraceno che sottolinea come i contratti brevi facilitino il mancato rinnovo per le donne che iniziano una gravidanza). Certo, sarebbe stato più grave se su questi temi ci fosse stato il silenzio assoluto. E comunque, se questa legge delega viene portata in parlamento, vale la pena di monitorarla.
[1] Anche il piano di investimenti negli edifici scolastici, e molto di più il pagamento dei debiti della PA con le imprese, vanno in questa direzione di sostegno della domanda interna, senza aspettare solo che sia l’estero a tenere in vita la nostra attività economica.
[2] Dovrà essere convertito in legge dal Parlamento entro 60 giorni dalla pubblicazione.
[3] La logica dei due tempi la troviamo anche nel sostegno alla domanda: sgravi fiscali subito. Ma il paventato taglio della spesa pubblica di più di 30 miliardi in tre anni non avrà effetti sull’occupazione solo se sposta reddito da rendite a imprese, da chi ha molto (e in proporzione spende poco) a chi ha poco ( e spende quasi tutto) . Un calcolo molto difficile da fare.
[4] Le lavoratrici autonome e parasubordinate devono avere almeno tre mesi di contributi nei 12 mesi precedenti il parto; l’indennità è calcolata sul reddito annuo che può essere molto basso se ci sono state interruzioni tra i contratti.
[5] Anche su questo si potrebbe discutere poiché si tratta di linee programmatiche che fanno pensare che si continui a ritenere la conciliazione ancora prevalentemente un problema “delle donne”.