Aliquote più basse se il contribuente è femmina: la proposta Alesina-Ichino ha qualche punto di forza e notevoli debolezze. La principale: la tassazione è anche una patente di cittadinanza. Meglio pensare a misure diverse, come gli sgravi per redditi più bassi e il reddito di cittadinanza, che pur essendo universali aiutano di più le donne
Alberto Alesina e Andrea Ichino hanno recentemente rilanciato, con contributi accademici e interventi sulla stampa, l'idea di una tassazione dei redditi personali differenziata in base al genere: aliquote fiscali più basse se il contribuente è femmina (1).
Secondo Alesina e Ichino si tratterebbe dello strumento più efficace per cambiare la condizione femminile in Italia: le donne avrebbero salari netti più elevati, migliori prospettive di lavoro, maggior potere contrattuale in famiglia (e quindi una divisione più equa del lavoro domestico), un reddito più elevato da spendere (se vogliono) per la cura dei figli. Inoltre l’aumento dell’occupazione femminile compenserebbe in buona parte la perdita di gettito fiscale dovuta alle aliquote più basse.
La proposta trae spunto da un risultato classico della teoria della tassazione e da risultati empirici che mostrano come l’offerta di lavoro femminile sia più elastica di quella maschile. Se il salario femminile aumenta il numero di donne che desiderano lavorare (e il numero di ore lavorate) aumentano sensibilmente (l’opposto, se il salario femminile diminuisce): a seconda dei paesi, ad un aumento dell’ 1% dal salario consegue un aumento dell’0.5% - 1.5% dell’offerta di lavoro femminile . Nel caso dei maschi, invece, la variazione è molto contenuta, solitamente inferiore a 0.5% (2). La teoria ci dice che è efficiente tassare di meno (di più) i comportamenti più (meno) elastici. Si può provare a spiegarlo con questo esempio. Consideriamo un maschio e una femmina che lavorano entrambi 40 ore alla settimana e guadagnano entrambi 10 euro all’ora. Per la donna 10 euro orari sono il salario minimo per il quale è disposta a lavorare. In altre parole, se il salario scendesse al di sotto di 10 euro rinuncerebbe a lavorare. Al contrario il maschio è completamente anelastico, cioè è sempre disposto a lavorare 40 ore alla settimana qualunque sia il salario. Supponiamo che si introduca una tassa del 25% sui redditi da lavoro. Ciò significa che il salario orario netto diventa 10 – 2.5 = 7.5 euro. Il maschio continuerà a lavorare 40 ore la settimana con un reddito netto di 300 euro alla settimana (invece di 400). Dato quel salario netto, però, la donna smetterà di lavorare. E’ evidente che sarebbe meglio tassare solo il reddito maschile: per il maschio (e per l’erario) non cambierebbe niente, mentre la donna sarebbe in una condizione migliore (potrebbe continuare a lavorare). Generalizzando, la teoria economica suggerirebbe di tassare di meno le donne. Gli autori calcolano che in Italia le aliquote femminile dovrebbero essere circa i 2/3 di quelle maschili.
La proposta ha tre punti forti e tre punti deboli. Comincio dai primi.
- Le implicazioni sui comportamenti, sui livelli di occupazione e sull’economia familiare sono inconfutabili. Il salario netto e i livelli di occupazione femminile aumenterebbero. E’ anche possibile che, magari nel lungo periodo, i termini di contrattazione all’interno della famiglia si sposterebbero a favore delle donne.
- La riforma sarebbe quasi autofinanziata. La perdita di gettito dovuta alle aliquote più basse potrebbe essere in buona parte compensata da un aumento del numero delle donne contribuenti e dall’aumento del reddito lordo da loro prodotto.
- Un altro risultato teorico – menzionato ma poco sviluppato da Alesina e Ichino – ci dice che sarebbe meglio tassare, invece che in base al reddito, in base a caratteristiche esogene (cioè non modificabili da parte del contribuente) correlate con la capacità contributiva (l’abilità o la produttività) Il motivo è che il reddito dipende anche dalle decisioni del contribuente. Se le decisioni sono elastiche, la tassazione basata sul reddito induce il contribuente a “nascondere” la sua capacità contributiva lavorando di meno. Questo invece non accade se la tassazione è basata su caratteristiche non modificabili (età, genere, altezza e così via).
Vengo ai punti secondo me più deboli o discutibili. Per lo più sono questioni riconosciute anche dagli autori.
- La differenza di elasticità tra maschi e femmine riguarda prevalentemente le donne sposate. Se si applicasse una identica tassazione per tutte le donne si introdurrebbe un elemento di inefficienza. Se d’altra parte si tassassero in modo diverso le donne sposate e le donne nubili si distorcerebbe la scelta matrimoniale (altro tipo di inefficienza). Inoltre la differenza di elasticità si riduce notevolmente al crescere del reddito familiare. Al fine di sfruttare correttamente le differenze di elasticità maschili e femminili le aliquote dovrebbero essere graduate in modo piuttosto complicato.
- L’elasticità dell’offerta di lavoro è strettamente legata al livello di occupazione e alla divisione intra-familiare del lavoro domestico. Se la tassazione differenziata per genere inducesse un aumento dell’occupazione femminile e una organizzazione più equa dell’organizzazione familiare simultaneamente assisteremmo anche ad una riduzione del divario di elasticità. L’efficienza della tassazione richiederebbe un aggiustamento frequente delle aliquote.
- Anche l’uso del genere come indicatore della capacità contributiva solleva un problema simile a quello del punto precedente. Anche ammettendo che vi sia un legame tra genere e capacità contributiva (ad esempio derivante dalla maternità), questo legame cambia anche in funzione delle politiche sociali e fiscali adottate.
I tre problemi elencati sopra potrebbero forse essere risolti con un disegno sufficientemente sofisticato della riforma. Quel che a mio parere rende non del tutto convincente la proposta è una questione più generale. Gli economisti hanno spesso formulato proposte che prevedono una differenziazione delle aliquote in base a caratteristiche esogene associate ad elasticità diverse e/o a capacità contributive diverse (età, etnia, altezza) (3). E’ significativo che queste proposte – nonostante possano avere indubbi vantaggi di efficienza e portare benefici ad ampie porzioni di popolazione – raramente abbiano superato il livello della discussione accademica. Il motivo principale, credo, è che la tassazione personale del reddito non è solo un meccanismo più o meno efficiente per finanziare le spese pubbliche, ma è anche una patente di cittadinanza. La differenziazione per genere (o magari per età) si scontra frontalmente contro il criterio di universalità che l’idea di cittadinanza richiama. Certo esistono politiche selettivamente indirizzate a specifici segmenti caratterizzabili in base al genere o all’età. Ma per lo più si tratta di meccanismi supplementari che non intaccano il carattere universalistico e basato sul reddito del prelievo fiscale di base.
La proposta rimane comunque degna di attenzione e meriterebbe di essere approfondita e discussa sia nei suoi aspetti tecnici sia dal punto di vista dell’ ”economia politica” (rapporto con altri criteri oltre a quello dell’efficienza, accettabilità in base a come la proposta è “confezionata” ecc.).
In vista di una concreta riforma al momento privilegerei una direzione diversa. Come quella di Alesina e Ichino trae spunto dalla teoria della tassazione efficiente ma è più tradizionalmente legata al criterio di universalità. L’elasticità dell’offerta di lavoro si differenzia in base al livello di reddito oltre che in base al genere. L’analisi delle elasticità disaggregate per genere, livelli di reddito e condizione familiare suggerisce che i problemi di efficienza (e di equità) si concentrano sulle famiglie con redditi bassi (I-III decile) e in particolare sulle donne (sia sposate che nubili) che vivono in quelle famiglie. Una riduzione significativa delle aliquote sugli scaglioni di reddito più bassi (o anche il credito di imposta come applicato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti) avrebbe notevoli effetti di efficienza, aiuterebbe in particolare le donne che hanno bisogno di aiuto (quelle povere), indurrebbe un aumento della partecipazione al lavoro contribuendo a compensare la perdita di gettito e manterrebbe il carattere universalistico del sistema fiscale. Ancora in direzione di politiche universalistiche e a favore dell’uguaglianza delle opportunità, sarei anche favorevole a meccanismi come il reddito di cittadinanza, che (forse sorprendentemente) potrebbero avere significativi effetti di efficienza oltre che equità (4).
Note
(1) Molti di questi contributi sono reperibili sulla homepage di Andrea Ichino: www2.dse.unibo.it/ichino.
(2) Vedi una survey in: Meghir & Phillips, Labour Supply and Taxes, IZA Discussion Papers 3405, 2008. Stime più disaggregate delle elasticità per l’Italia e la Norvegia si trovano in: Aaberge & Colombino, Accounting for family background when designing optimal income taxes: a microeconometric simulation analysis, Journal of Population Economics, DOI 10.1007/s00148-010-0331-y; Aaberge & Colombino, Designing Optimal Taxes with a Microeconometric Model of Household Labour Supply, Carlo Alberto Notebooks no. 157/2010.
(3) Un contributo recente: Cremer & al., Tagging and Income Taxation: Theory and an Application, American Economic Journal: Economic Policy, 2010, 2(1): 31–50.
(4) Colombino, Il reddito minimo universale, La Voce 11-06-2010. Per un contributo più analitico vedi: Colombino & al. Alternative Basic Income Mechanisms: An Evaluation Exercise with a Microeconometric, Basic Income Studies, 2010, 5(1), Article 3.