Da che The tree of life di Terence Malick ha vinto la Palma d’oro a Cannes il mondo  si divide in intelligenti e cretini. Ecco, io faccio parte dei cretini

L'albero della noia

Da che The tree of life di Terence Malick ha vinto la Palma d’oro a Cannes il mondo – o meglio una fettina del nostro piccolo mondo - si divide in intelligenti e cretini. Io faccio parte dei cretini. Una posizione scomoda, ma che tanto vale tenere con dignità quando ci si trova.

A Waxo, Texas, negli anni cinquanta vive una famiglia teoricamente felice: un padre autoritario e splendidamente corrucciato nell’interpretazione straordinaria di Brad Pitt, una madre remissiva dalla bella chioma rossa e dagli invidiabili abitini (Jassica Chastain), tre ragazzini iperattivi, pallone, corse nei prati, persecuzione di lucertole, biciclette, secondo il più classico cliché americano. Apprenderemo presto, per merito dell’immancabile voce fuori campo, che la famiglia non è felice affatto. Lei trasmette ai figli il messaggio della ricerca spirituale: “Ci sono due vie – spiega- la via della natura e la via della grazia: se non ami, se non segui la via della grazia, la tua vita passerà in un attimo”. Lui, malgrado il formalismo di accigliate preghiere pre-pasto, insegna la dura legge della natura: “Ci vuole una volontà di ferro per imporsi in questo mondo”. Come se non bastasse si fa chiamare “sir” dai figli, li sollecita a incontri di boxe per saggiare le forza dei loro pugni, li punisce ottusamente per ogni mancanza. Padre e madre, i loro diversi mondi, lottano nella coscienza del figlio maggiore, il personaggio più importante del racconto.

Potrebbe essere uno dei tanti film di memorie e tormenti familiari, se qualcosa non ci avesse messo sull’avviso fin dall’inizio. Una fiamma elicoidale che compare nella prima sequenza altri non è che Dio sotto forma di roveto ardente. E poi in epigrafe due versetti del libro di Giobbe cui palesemente il film è ispirato.

Del resto tutto il linguaggio filmico vuole trascendere la nostra umana misura. Si vive in un eterno tramonto-crepuscolo: luci rosa e dorate, ombre lunghe, la macchina da presa che danza in un vortice, una voce fuori campo che prega per noi, salmodia per noi, espia per noi continuamente, senza requie.

D’un tratto uno dei figli muore. Ai dettagli poco spazio. Molto invece alla narrazione del lutto. Che è come una finestra archetipica sul mondo: big bang, vulcani in eruzione, acque scroscianti, lotte mortali fra dinosauri, meduse che galleggiano sfoggiando colori fosforescenti, orbite rugose di neonati d’uccello. Mi si perdoni l’insolenza: il meglio del National Geographic.

Quando mai il lutto allarga a tal segno lo sguardo? Il lutto è buio, torvo, ottuso.

Già, ma come non capirlo subito, qui si tratta del lutto di Dio. O meglio la narrazione è secondo il suo punto di vista. “La condotta integra non era forse la tua speranza?- minaccia l’Eterno nella sua lotta contro Giobbe – Case di fango senza che nessuno ci badi periscono per sempre. Io ho in mano il soffio di ogni cosa umana. Come le alluvioni porterò via il terreno. Verrete falciati come le teste di una spiga”. E’ lui a dirci che le nervature di una foglia sono identiche alle piccole rughe di un piedino di neonato (che campeggia accattivante nei manifesti del film).

Integra è la famiglia. Padre e madre, ciascuno nel suo, giocano il proprio ruolo. Diverso è il tocco. Forse nel tocco, nella precarietà dell’amore, stanno le scene più belle del film. I fratelli giocano a giustapporsi le mani dall’una e dell’altra parte di un vetro. La madre, nutre, accudisce, allarga le dita. Il padre stringe i polsi, curva le nocche, di continuo si contrappone alla tenerezza.

Tuttavia ogni cosa che attiene al destino sfugge al desiderio di continuità dei sentimenti. “Mi disfò come legno tarlato. O come un vestito corroso da tignola. L’uomo , nato di donna, breve di giorni e sazio di inquietudine, come un fiore spunta e avvizzisce”(Giobbe 13,26). Così breve di giorni è l’essere umano che nessuno, né i ragazzi né i protagonisti, ha un nome. A ogni svolta della storia il roveto ardente, il Dio vendicativo, scandisce i destini.

Tuttavia il tempo passa. Ritroviamo il figlio maggiore, adulto e dolente, interpretato da Sean Penn. Capiamo che una nuova generazione è cresciuta da dettagli molto profani: il design dei bagni di un lussuoso appartamento newyorkese, la scansione trasversale dei grattacieli, l’azzardo degli ascensori che sembrano sfidare quel Dio che “sulla volta del cielo passeggia” (Giobbe, 28,20). Il figlio cerca l’eterno e lo trova. E’ morto? E’ vivo? Non è dato sapere. Forse come Virgilio e Dante approda vivente nel mondo delle anime eterne. Si tratta di una meravigliosa spiaggia americana (ancora National Geographic) dove il fratello perduto passeggia insieme al padre e alla madre, giovani e belli come furono. L’immancabile luce radente li carezza. Sean Penn si getta in ginocchio sul bagnasciuga e l’acqua lambisce i bei calzoni da yuppy newyorkese. Ultima apparizione del roveto ardente. Fine. Titoli di coda.

Qui accade qualcosa tra gli spettatori, almeno fra i miei compagni di avventura in un cinema romano frequentato da ceti medi riflessivi. All’ennesima apparizione del fuoco elicoidale corre fra il pubblico, fino a quel momento educatissimo, una risata isterica, trattenuta. Poi, alla comparsa dei titoli di coda, c’è un sospiro di sollievo quasi unanime, profondo, percepibilissimo.

Insomma sono in buona compagnia: una massa di cretini, dato che un critico laureato ha scritto che “chiunque abbia visto sette film in vita sua non può non capire che si tratta di un capolavoro”.

E un altro, di pari lignaggio, accusa chi non apprezza The tree of life di ideologia antireligiosa. No, non è il mio caso. Per me Uomini di dio di Xavier Beauvais e Lourdes di Jessica Hausner, entrambi di argomento religioso, sono forse i film più belli che abbia visto negli ultimi due anni. Certo, non hanno il marchio cupo e integralista di The tree of life. Certo, nominano gli esseri umani, sanno come si chiamano i loro personaggi.

L’aneddotica non è un buon metro per giudicare un regista. Ma qualcosa nello stile ormai mitico di Malick fa riflettere. Non ritira i premi, non concede un’intervista dal 1973. E fin qui possiamo anche apprezzare l’impaccio di un genio in un mondo di narcisi mediocri. Ma l’unica volta che venne a Roma nel 2007 fece oscurare la sala, impose ai suoi ospiti che il pubblico stesse in un silenzio da cattedrale e non gli rivolgesse alcuna domanda. Ebbe anche il candore (o l’impudenza?) di chiedere se, per simulare meglio la sala vuota, era possibile togliere le prime tre file di sedie.

Ecco: ecco anche noi pubblico siamo senza nome, teste di spiga che verranno falciate. E non meritiamo il tocco della tenerezza.

I più cretini se ne accorgono e, nel loro piccolo, si arrabbiano.

 


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