La fratellanza e la paura, la quotidianità del bene e quella del dolore. Una comunità di monaci cistercensi sulle montagne dell'Algeria, nel film di Xavier Beauvois

Di uomini e di dei

Provoca stupore il salmo 82, che chiude i titoli di testa del film “Uomini di dio”. Ad orecchie poco addestrate all'esegesi biblica può apparire addirittura blasfemo. “Dio si alza nell'assemblea divina e giudica in mezzo agli dei...Voi siete dei, siete tutti figli dell'Altissimo. Eppure morirete come ogni uomo, cadrete come i potenti”. E' difficile capire se si alluda a uomini eminenti che si innalzano come dei, oppure alla natura divina di ciascun essere umano, o ad ambedue le dimensioni nello stile sintetico di quegli scritti sacri.

Ma certamente Xavier Beauvois, l'autore del film che in italiano porta appunto il titolo di “Uomini di dio”, sapeva quello che faceva quando sintetizzava la sua narrazione in tutt'altro modo: “Des hommes et des dieux”. Di uomini e di dei. Uomini diversi fra loro, normali, non eroi, ma - come scrive Enzo Bianchi - “capaci di vivere la sofferenza come parte integrante di una vita che vale la pena di essere vissuta e conoscitori della quotidianità del bene, cioè della capacità di vivere con dignità anche nell'angoscia e nella paura”.

E anche dei diversi tra loro, non perché uno sia quello del Corano e l'altro quello della Bibbia, ma perché dentro ogni religione, e non come qualcuno vuole fra le religioni, esiste uno “scontro di civiltà”. Fra le ragioni della dolcezza, della solidarietà del nutrimento dell'anima propria e altrui, e quelle della legge, della spada, dell'intransigenza, dell'odio per l'apostasia, del disprezzo per le fedi altrui.

Sette monaci cistercensi del monastero di Tibhirine, nelle montagne dell'Algeria, incarnano giorno dopo giorno, gesto dopo gesto, per tre anni, gli dei che saziano “con fiore di frumento e miele di roccia” per dirla con un altro salmo. Lo fanno fino al momento del loro rapimento nella notte fra il 26 e il 27 marzo del 1996. Al rapimento seguirà il martirio, della cui vista cruenta allo spettatore è fatta grazia. Vediamo, nell'ultima scena, i religiosi allontanarsi lungo un sentiero nebbioso scortati dai loro aguzzini. Con ogni probabilità gli assassini sono una banda di integralisti islamici, ma la storia (vera) non esclude la complicità di corpi corrotti dell'esercito algerino.

Certo, degli dei della spada e dell'odio poco si racconta. Restano ombre lunghe e nere sullo sfondo. I musulmani del villaggio dividono il loro cibo con i monaci, questi leggono e citano il Corano. Persino un cavaliere minaccioso, con turbante e agguerriti seguaci, si placa dopo un' irruzione al monastero, quando Christian, il priore di Tibhirine, chiama Gesù con il nome Isa ibn Maria, l'appellativo che gli spetta con reverenza nella tradizione coranica. Gli dei della morte sono fino all'ultimo dietro le nuvole.

E' una comunità di uomini quella del monastero. Di uomini affratellati dal lavoro e dalla preghiera. Come se una comunità maschile potesse condividere la vita quotidiana, le sue fatiche, il costante ripetitivo ricambio con la natura, l'immanenza insomma, solo attraverso la salita perseverante verso la trascendenza. O almeno, forse solo in questo modo potesse essere narrata.

Ma la paura è lì, palpabile. Notizie, proposte di protezione da parte della polizia, episodi cruenti, non lasciano molti dubbi. O prima o poi sarà anche per i monaci la volta di mettere in gioco la propria vita. E' attraverso il prisma della paura si disegnano i personaggi. Christian (Lambert Wilson), il priore, con qualche eccesso di rigidità doveristica che impara lentamente a governare, il meraviglioso medico Luc (Michael Lansdale) su cui torneremo, e tutti gli altri. Incerti fino all'ultimo se restare o salvarsi la vita, mai retorici, sempre inquieti. Si riuniscono in assemblea, ma non decidono. Gli amici musulmani del villaggio, di cui sono l'unica protezione, decideranno per loro. Quando il priore descrive la comunità come uno stormo di uccelli che domani può posarsi su un altro ramo, una donna del villaggio pronta ribatte: “no; voi siete il ramo e noi siamo gli uccelli”.

Il cerchio si stringe. Il regista sceglie la sua “ultima cena” per avvolgere anche noi. Prima i violini struggenti, poi i fiati del coraggio e paradossalmente della gioia, accompagnano, nella danza laica del primo movimento del “Lago dei cigni” di Ciaikovski, l'ultimo vino e l'ultimo pane dei monaci. La macchina è lenta: mani, sguardi, rughe di angoscia, infine sorrisi e muti reciproci incoraggiamenti.

Ma Luc, il medico, è Luc. Un'icona meravigliosa. Religioso e oltre il religioso. Comunitario e oltre la comunità. Pratico nella sua dedizione, terrestre nel ricordo delle donne che ha amato e nella semplicità con cui incoraggia un ragazza musulmana a non aver paura dell'amore, illuminista per il suo livre de chevet, le “Le lettere persiane” di Montesquieu, dove si narra del nostro mondo visto rovesciato dal persiano Usbek, dunque consegnato alla sua parzialità e al suo relativismo. E infine consapevole e autoironico: “non si fa mai del male - dice- così allegramente e così pienamente come quando lo si fa per motivi religiosi”.

Oltre alle donne del villaggio, un'unica icona femminile accompagna i monaci ed è oggetto di devozione. E' la “Vergine annunciata” di Antonello da Messina. Sola, senza figure celesti che ingombrino il campo, accoglie con la mano il messaggio dell'angelo. Per il resto è raccolta, legge un libro (il libro?) e avvolge testa e collo in un chador di un azzurro luminoso. Piegato alla maniera delle ragazze musulmane.


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