Dopo la sentenza della Cassazione sul post-divorzio apriamo il dibattito sull'economia di coppia. La storia patrimoniale di Ada e Alberto, che hanno deciso di non sposarsi
Economia di coppia
Ada e Alberto
Premetto che ho delle resistenze personali rispetto al matrimonio – e per questo non l’ho scelto – e una di queste è proprio la questione patrimoniale e la dipendenza economica reciproca. Sarà che sono cresciuta pensando che l’indipendenza economica fosse fondamentale e prioritaria, per le donne in generale e per me in particolare, e ho sempre orientato le mie scelte personali e lavorative considerando di dover provvedere al mio sostentamento, in autonomia e per sempre.
C’entrano gli insegnamenti della mia saggia nonna operaia, le origini genovesi, e il fatto che sentimenti ed economie secondo me viaggiano su binari paralleli: va bene l’amore, va bene la famiglia, va bene un conto in comune per le spese di gestione ordinaria, ma voglio alimentare il mio conto in banca e disporne a mio piacimento.
E soprattutto ritengo sia necessario – per la mia sanità mentale e per dare un senso alla mia vita che non si esaurisca nell’amore, nella famiglia e nei figli – avere un ruolo economico e sociale, che il lavoro mi garantisce e a cui non intendo rinunciare.
Ritengo quindi l’indipendenza – economica e non solo – una scelta prioritaria anche quando costa fatica, è in apparenza una scelta meno facile e conveniente, implica/ha implicato un posizionamento al ribasso del tenore di vita.
Personalmente mi sentirei in trappola altrimenti.
Detto ciò osservo da esterna il dibattito e mi sembra che stiano venendo fuori una serie di osservazioni sul matrimonio, anche da parte di autrici autorevoli, che mi lasciano molto perplessa.
Nella mia visione – personale, d’accordo – mi sembra che ci dovrebbe essere un interesse da parte delle donne ad emanciparsi dal matrimonio, quanto meno dal matrimonio tradizionale che mischia possesso, tutela e proprietà e a muoversi verso un suo superamento o quanto meno una definizione di nuovi equilibri.
Invece nel dibattito ci viene riproposto un approccio alla “difesa dei diritti” – in cui le donne sono ancor prima che soggetto debole che va tutelato, soggetto non economico, solo secondariamente interessato a produrre reddito perché dedito prioritariamente alla cura familiare. Approccio peraltro smentito dai dati che ci dicono che spesso le donne cercano un lavoro e non lo trovano e, non sentendosi sicure economicamente, i figli non li fanno proprio.
Poi ritroviamo nel dibattito il matrimonio come investimento sociale, in cui uno dei due, la moglie ça va sans dire, investe sulla carriera dell’altro, rimane one step behind e poi richiede che questo investimento venga riconosciuto, monetarizzato.
Anche qui: ogni scelta personale è lecita, tuttavia, dal mio punto di vista, è sempre molto rischioso proiettare su altri – marito, figli – i propri desideri di realizzazione.
E raccontarci che la cosa che vogliamo difendere, invece che impegnarci perché sia sempre più possibile investire su noi stesse, sia vedere riconosciuto – monetizzato – il supporto dato alla realizzazione altrui mi sembra un salto all’indietro.
Voglio dire, è ovvio che in una dinamica relazionale si possano fare scelte che favoriscano uno e penalizzino l’altro ma o si chiarisce che lo si fa per ragioni economiche – con una contestuale monetarizzazione – oppure si fa per affetto, amore, solidarietà, empatia e va bene così. Detto per inciso, io non lo so se riuscirei a farlo, probabilmente metterei in discussione la mia storia, troverei un modo per difendere comunque la mi indipendenza economica.
Infine troviamo il tema del matrimonio come investimento economico, che riporta l’attenzione al rapporto tra donne e investimenti e sulla necessità di chiarire quanto sia necessario valutare bene l’affidabilità degli investimenti in generale e del matrimonio in questo senso. Mi verrebbe da dire: qualcuno ha mai calcolato un ROI del matrimonio? Quali variabili bisognerebbe utilizzare? Forse provarci servirebbe a dimostrare che non ha senso e che quindi, razionalmente, bisogna investire anche su altro – diversificare gli investimenti.
Insomma, a me la sentenza della Cassazione sembra – per i limitati casi in cui vale – un riconoscimento di un ruolo paritario tra uomini e donne che è vero non corrisponde completamente all’attuale equilibrio di potere ed economico ma che dà una spinta in quella direzione.
Ada, 44 anni
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