Politiche

Matrimonio e patrimonio. Dopo la sentenza della Cassazione che rivoluziona il post-divorzio, i pareri tra le femministe sono stati diversi e discordanti. Passo avanti o salto all'indietro? Apriamo al dibattito

Divorzio. Cosa è meglio
per le donne?

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Foto: Flickr/ Classic Film-Hertz

Il matrimonio come “atto di libertà e autoresponsabilità, nonché come luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile”. I princìpi affermati dalla sentenza con la quale la Corte di Cassazione ha radicalmente innovato la giurisprudenza sul divorzio, con conseguenze rilevanti sulla fissazione dell’assegno di mantenimento per l’ex coniuge, non possono non piacere ai movimenti che hanno a cuore la libertà e l’autodeterminazione femminile. A partire da quelle parole-chiave, che ricorrono nella sentenza: libertà. Autoresponsabilità. Indipendenza. E dissolubilità del matrimonio. A quarantasette anni dall’introduzione del divorzio in Italia, e a ventisette dalla sentenza della Corte di Cassazione che finora era stata la pietra miliare per le decisioni in materia economica sui rapporti tra gli ex coniugi, la Cassazione dice in sostanza: il mondo è cambiato. E se è cambiato, aggiungiamo noi, è anche un successo delle donne. Ma quest’affermazione non è affatto pacifica. Anzi, pareri autorevolissimi, di donne che hanno cercato, documentato e studiato le differenze di genere sul campo della ricerca sociale, dicono il contrario: che la sentenza è un passo indietro per le donne, e che, pretendendo di certificare una parità e libertà che non c’è, sancisce e rischia di approfondire una diseguaglianza sostanziale che invece c’è. Un sito come inGenere, luogo di discussione e approfondimento sulle tematiche di genere a partire dall’economia, non può essere insensibile né estraneo a tale dibattito, che quindi qui cerchiamo di riassumere – sia pure da un’ottica di parte, chi scrive ha preso una posizione "pro-Cassazione" nel dibattito -, per aprire il nostro piccolo spazio all’approfondimento e alla discussione.

Cosa cambia

La sentenza della Cassazione civile, prima sezione civile, cambia i parametri ai quali fare riferimento per decidere in materia di assegno divorzile, ritenendo l’orientamento sancito dalla giurisprudenza precedente, dall’introduzione della legge a oggi, “non più attuale”. Questo orientamento – del quale come si è detto, pietra miliare è una sentenza della Cassazione del 1990 – poneva il “tenore di vita matrimoniale” come parametro condizionante sia del riconoscimento del diritto all’assegno che della sua quantificazione. Sulla base di questo principio, l’assegno di “mantenimento” dell’ex coniuge con minore o nessun reddito andava quindi sulla base del mantenimento del tenore di vita che si aveva in corso di matrimonio,  e quantificato in base a questo parametro, tenuto conto anche di una serie di altri fattori che vanno a incidere sul suo importo. La novità sostanziale della sentenza del 10 maggio 2017 sta nell’aver “cacciato” il riferimento al tenore di vita dalla prima parte del giudizio, quella sulla stessa sussistenza del diritto all’assegno: che scatterà solo in caso di non indipendenza e non autosufficienza economica. Le quali, a loro volta, vanno valutate sulla base di parametri oggettivi, che la Corte elenca: il possesso di redditi di qualsiasi specie, il possesso di patrimonio mobiliare e immobiliare, le capacità e possibilità effettive di lavoro, la disponibilità di una abitazione. In sostanza, si farà riferimento alla indipendenza economica di chi richiede l’assegno: se questa c’è – al livello di vita dignitosa, non necessariamente al livello della vita che si faceva in corso di matrimonio – non c’è diritto all’assegno.

Secondo i giudici della Cassazione, il riferimento al parametro del “tenore di vita” entra in contraddizione con lo stesso istituto del divorzio, ossia con la cessazione degli effetti del matrimonio: di fatto, perpetuando i suoi effetti patrimoniali mentre sono finiti tutti gli altri. Si legge nella sentenza: “Il parametro del 'tenore di vita' (…) collide radicalmente con la natura stessa dell'istituto del divorzio e con i suoi effetti giuridici: (…) con la sentenza di divorzio il rapporto matrimoniale si estingue sul piano non solo personale ma anche economico-patrimoniale (…), sicché ogni riferimento a tale rapporto finisce illegittimamente con il ripristinarlo - sia pure limitatamente alla dimensione economica del 'tenore di vita matrimoniale' ivi condotto - in una indebita prospettiva, per così dire, di 'ultrattività' del vincolo matrimoniale”. Se in passato questa contraddizione è stata accettata e anzi voluta dagli stessi giudici di Cassazione, è per non rompere troppo traumaticamente con il passato: 

“Le menzionate sentenze delle Sezioni Unite del 1990 si fecero carico della necessità di contemperamento dell'esigenza di superare la concezione patrimonialistica del matrimonio 'inteso come sistemazione definitiva, perché il divorzio è stato assorbito dal costume sociale' (…) con l'esigenza di non turbare un costume sociale ancora caratterizzato dalla 'attuale esistenza di modelli di matrimonio più tradizionali, anche perché sorti in epoca molto anteriore alla riforma', con ciò spiegando la preferenza accordata ad un indirizzo interpretativo che 'meno traumaticamente rompe[sse] con la passata tradizione' (…). Questa esigenza, tuttavia, si è molto attenuata nel corso degli anni, essendo ormai generalmente condiviso nel costume sociale il significato del matrimonio come atto di libertà e di autoresponsabilità, nonché come luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile”.

In relazione a questo mutamento sociale, si può ora riconoscere la natura dell’interesse tutelato con l’assegno divorzile, che, scrive la Cassazione, “non è il riequilibrio delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma il raggiungimento della indipendenza economica, in tal senso dovendo intendersi la funzione - esclusivamente - assistenziale dell'assegno divorzile”.

Le critiche

La sentenza è stata in via generale accolta da un coro di consensi, in particolare da parte degli avvocati matrimonialisti, delle combattive associazioni dei padri separati, e di molti osservatori meno interessati e/o parziali. Ma ha avuto anche critiche molto importanti e pesanti. Ne citiamo alcune. Chiara Saraceno, su Repubblica, ha sottolineato la disparità delle condizioni in cui si trovano donne e uomini di fronte al divorzio, e dunque ha invitato a non coprire, con ragionamenti basati su un principio di eguaglianza che nella realtà non esiste, effetti molto penalizzanti per le donne. Interpellata da inGenere, Saraceno spiega: “Non mi piace parlare di 'soggetto debole'. Ma parlo della diseguaglianza, non solo quella che c’è nel mercato del lavoro ma soprattutto del diseguale riconoscimento del valore del contributo che ciascun coniuge dà al benessere della famiglia, quando si tratta di lavoro non pagato, anche a costo di aver rinunciato, o ridotto, la propria capacità  economica. La capacità  economica dei mariti è anche resa possibile dal lavoro gratuito delle mogli, che sono il vero strumento di conciliazione famiglia-lavoro per gli uomini. Ciò  non significa che l'assegno vada pagato per tutta la vita e a tutte. Dipende dall'età, dalla durata del matrimonio, da che decisioni sono state prese nel corso dello stesso per quanto attiene alla divisione del lavoro famigliare e della vita professionale, alla capacità di guadagno effettiva di chi dovrebbe pagare. Ma non bisogna dimenticare né la disuguaglianza, né il valore anche economico del lavoro famigliare gratuito: invece la sentenza della Cassazione lo fa”.

Argomenti simili sono quelli portati, contro la svolta della Cassazione, da Linda Laura Sabbadini, dirigente dell’Istat. La Cassazione “certifica una parità che non c’è”, ha scritto Sabbadini su La Stampa. Spiegando poi nel dettaglio, in un’intervista a Radio Radicale perché a suo avviso questa pronuncia – che, secondo Sabbadini, segna una rivincita dello stesso fronte che, in tema, aveva tentato l’affondo proprio su quella prima sentenza del 1990 – esalta l’uguaglianza formale e dimentica quella sostanziale; e, in nome della “autosufficienza” della donna, destina molte ex-coniugi all’impoverimento certo in caso di divorzio. Il riferimento al “tenore di vita”, argomenta Sabbadini, al di là dei casi da cronaca patinata dei vip, serviva - nella realtà della massa delle separazioni di persone comuni – a riconoscere, al momento della fine del matrimonio il contributo che a tale tenore di vita ha dato il lavoro invisibile, non pagato e non formalizzato delle donne: in sostanza riconosceva che ”il reddito più alto del marito è frutto anche del contributo che la donna ha dato”, spesso rinunciando alla sua carriera, o accettandone delle limitazioni. In discussione in queste cause, infatti, non c’è tanto il caso in cui la donna non lavori affatto - caso nel quale mantiene ovviamente il diritto all’assegno -, quanto il caso in cui un lavoro e un reddito ci sono, ma sono più bassi di quelli dell’ex marito. “Hai un reddito anche basso? Arrangiati”, è la morale della sentenza, secondo Sabbadini. 

In un intervento sul blog Femministerie, Cecilia D’Elia e Giorgia Serughetti, autrici del libro Libere tutte (Minimum fax, 2017), vedono in questa sentenza il “buono” del superamento di modelli familiari antichi; ma anche un conflitto tra quelli che chiamano “due rischi opposti”; da un lato, scrivono, c’è “il tradizionalismo venato di paternalismo, che intende tutelarci ma anche mantenerci in uno stato di minorità”; dall’altro, “l’astrattezza di un’idea di libertà fondata sull’autoaffermazione individuale, che ci consegna semplicemente all’abbandono sociale”.

Le domande

La discussione è molto interessante, e su inGenere ci impegniamo a proseguirla. Personalmente, ho già espresso un ragionamento nel quale ho cercato di argomentare un senso di sollievo, e anche di liberazione, istintivamente provati nella lettura della decisione della Cassazione: in particolare, ho trovato molto realistici i rilievi dei giudici sul cambiamento dei tempi e dei costumi, sul nostro essere passati da un regime, e un vissuto, di “indissolubilità” del matrimonio a una realtà fatta di pochi matrimoni, e dissolubili. 

Ma soprattutto, la difficoltà di applicare uno schema rigido – il mantenimento del tenore di vita – a un mondo in cui tutto è incerto, dalle condizioni del mercato del lavoro (si pensi a una separazione tra due partite Iva, ossia la normalità del lavoro dei giovani: chi è ‘forte’, chi è ‘debole’, chi deve pagare e quanto, in un mondo precario per definizione?) alla tenuta dei rapporti, alla progettazione del futuro. Un mondo nel quale, data la realtà di lavori precari e a basso reddito, la fine di una relazione matrimoniale è una tragedia economica per tutti, fa diventare tutti e due i membri della coppia “soggetti deboli”. Un mondo nel quale, non dimentichiamolo, la crisi economica ha inciso in modo non neutro, colpendo di più gli uomini e dunque avvicinando una parità purtroppo al ribasso.

D’altro canto, colpiscono e sono assai fondate le motivazioni alla base del riferimento al “tenore di vita” e la realtà di una sproporzione che permane tra donne e uomini sul mercato del lavoro e nella prestazione del lavoro di cura. Ma non rischia di essere questa stessa constatazione una trappola? Se al momento della separazione il riferimento al “tenore di vita” non è altro che un modo per riconoscere il lavoro non pagato delle donne, e dunque per risarcirle, non rischia anche di cristallizzare, codificandolo, quest’andazzo? Chi l’ha detto che ancora oggi, anno 2017, donne mediamente più istruite dei loro partner debbano 'sacrificare' la loro carriera per costruire quella del marito? E anche se così fosse, deve essere proprio il divorzio – ossia la fine dell’amore, il momento peggiore per la stabilità anche emotiva personale – a farsi carico del compito di riequilibrare i pesi che nel periodo dell’armonia di coppia si erano distribuiti in modo così sperequato? La stessa Cassazione – già citata – scrive che lo scopo dell’assegno di mantenimento “non è il riequilibrio delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma il raggiungimento della indipendenza economica”. Non sarebbe il caso di chiedere, anzi pretendere, il riequilibrio delle condizioni economiche nella sfera dell’economia – e della società: dunque lavoro, reddito, servizi – e sgravare divorzi e separazioni da una sfera patrimoniale modellata sul tempo che fu?