Orari non standard e difficilmente compatibili con i tempi di lavoro: perché la ripresa delle attività scolastiche rischia di tradursi in un nuovo percorso a ostacoli per le madri

Scuole aperte,
più o meno

di Cinzia Meraviglia, Aurore Dudka

Le nuove linee guida pubblicate dal Ministero dell’Istruzione per la ripresa delle attività scolastiche hanno l’obiettivo principale di limitare al massimo il rischio di contagio legato al Covid19. Allo stesso tempo, le linee guida avrebbero dovuto risolvere il rompicapo delle famiglie, che da mesi devono destreggiarsi tra la didattica a distanza, i bambini a casa e l’attività lavorativa.

Le linee guida implicano però restrizioni che richiederanno di fatto un aumento del carico di attività da parte dei genitori, i quali dovranno sopperire alla riduzione del servizio pubblico. Ad oggi, almeno una scuola su 4 non riesce a garantire il tempo pieno o/e la mensa in questa fase di ripartenza. Inoltre, il piano di ripresa prevede il cambio di orario dei tempi scolastici rispetto alla situazione pre-Covid19 con turnazioni, orari non standard e difficilmente compatibili con l’orario di lavoro.

Per le scuole secondarie superiori, inoltre, parte delle lezioni si svolgerà in presenza e parte a distanza. E va aggiunto che, in caso di temperatura superiore a 37,5 gradi, con il raffreddore o mal di gola e qualche colpo di tosse, bambini/e e ragazzi/e avranno l'obbligo di stare a casa. In caso di positività, l’Asl potrà decidere di mettere in quarantena tutta la classe, o solo una parte, per due settimane. Anche le attività pomeridiane, a carico di associazioni e cooperative, potrebbero non ricominciare.

Tenuto conto di tutto, si teme un ulteriore sovraccarico di lavoro per i genitori, in particolare, per le donne.

Come è emerso dalla ricerca che abbiamo condotto all'interno del Centro Genders dell’Università degli Studi di Milano, relativamente al periodo del lockdown, le attività domestiche, in particolare quelle relative alla cura dei figli (figura1), rimangono prevalentemente a carico delle donne anche in tempi eccezionali, indipendentemente dalle loro risorse (ovvero da quanto contribuiscono al bilancio familiare attraverso un lavoro retribuito) o dal tipo di impegno nel lavoro retribuito.

È il caso di chiedersi: quanti bimbi si ammaleranno e quante donne dovranno stare a casa per accudirli in autunno, stagione di raffreddori e altri malanni di stagione? In più, con la riduzione dei tempi scolastici e le difficoltà per il trasporto a scuola dei figli, quante madri dovranno adattarsi e modificare i propri orari di lavoro? E quante potranno farlo, grazie a un datore di lavoro comprensivo? Considerando che non molte potranno contare sui nonni, alle prese loro stessi con la necessità di proteggersi dal possibile contagio. 

Figura1. Attività di cura dei figli durante il lockdown, secondo il genere (%) (N=934)

 

Il nostro discorso, fin qui, segue linee di pensiero tradizionali: se la famiglia chiede più attenzioni, tempo e risorse, è alle donne che ci si rivolge, e quindi prevediamo che l’aggravarsi del carico di lavoro di cura che le linee guida sottintendono colpirà maggiormente le mamme. 

Ma c'è un altro punto importante: perché devono essere le donne a farsi sempre carico dei figli, e in generale degli altri membri della famiglia, oltre che della casa? Molte ricerche ci dicono che è ancora così, e non soltanto in Italia, dove la disuguaglianza di genere a riguardo è drammatica: le donne italiane svolgono infatti in media l’86% delle attività domestiche e di cura dei figli.

Non solo: recentissime ricerche, relative proprio al periodo di lockdown in Italia, confermano che anche in quel delicato periodo a vincere è stato il modello male breadwinner – cioè, lui ha un lavoro retribuito, lei svolge il lavoro non retribuito domestico e di cura dei figli – addirittura anche quando in realtà lei ha un lavoro retribuito, ma lavora da casa (quando può: durante il sonnellino del pomeriggio, all’alba o di sera).

Per quanto basati su un campione non probabilistico, i dati che abbiamo raccolto confermano queste conclusioni: al di là del fatto che durante il lockdown abbiano lavorato a casa o sul posto di lavoro, o che abbiano mantenuto o perso il proprio reddito, le attività domestiche e di cura restano appannaggio delle donne in quanto donne. 

Se dunque casa e figli restano un compito femminile, riceve conferma il timore che le nuove direttive sulla ripresa delle attività scolastiche, impegnando le famiglie a una maggiore flessibilità, rischiano di pesare essenzialmente sulle donne, generando conseguenze non solo per le singole persone (carriera professionale e scelte di vita), ma anche per le famiglie. E, di riflesso, per la società intera: madri casalinghe, dipendenti economicamente dal partner, rappresentano inevitabilmente, nel bene e nel male, modelli di ruolo differenti per figlie e figli rispetto a madri che hanno un lavoro retribuito.

Sappiamo che in Italia le donne sono sfavorite sul mercato del lavoro, uno dei più difficili in Europa, in particolare in presenza di figli: nel 2019, delle oltre 51mila dimissioni di lavoratrici madri e lavoratori padri, il 73% riguarda le prime. Adesso, il tasso di attività femminile potrebbe subire una diminuzione significativa nel medio e lungo periodo, col risultato di risospingere le donne nell’ambito domestico, non per una scelta di vita consapevole, ma come scelta forzata dalle condizioni strutturali create dall’esecutivo per uscire dalla fase critica.

Già ora, le donne italiane "escono" dall’ambito domestico assai meno di quanto succeda in altri paesi europei. Per avere un’idea, basti pensare che, secondo i dati Eurostat su 35 paesi, in Europa solo la Macedonia del Nord e la Turchia hanno tassi di attività femminili inferiori all’Italia che, col suo modesto 56% del 2019, si colloca a distanza siderale da Islanda (85%), Svezia (81%), Svizzera (80%). Senza l’attenzione che le necessità dell’occupazione femminile richiedono, la condizione delle donne italiane rischia davvero una débacle.

Ci uniamo alle osservazioni di Paola Villa, per quanto riguarda l'allocazione del recovery fund dell'Unione europea alle attività di sanità e di istruzione, nelle quali le donne formano la maggioranza della forza lavoro. È poi necessario un ambizioso investimento pubblico per modificare l’idea che si tratti di un “affare femminile”. In questo senso, ci sembrano ipotesi interessanti l'introduzione di incentivi monetari o proposte di smart working per i padri che rimangono a casa per curare un/a figlio/a malato/a, o per portare o prendere i figli a scuola.

Altri paesi europei hanno già instaurato, o progettano di instaurare, misure di sostegno alla famiglia che puntano sui padri, allungando il congedo di paternità alla nascita del/della figlia/o (misura in discussione attualmente in Francia), o garantendo lunghi congedi parentali e risorse economiche adeguate (come in Norvegia e Svezia).

Per concludere, ci sembra essenziale che, in un paese nel quale, se una madre si dimette, lo fa in larghissima misura per incompatibilità tra la cura dei figli e il lavoro, lo stato investa affinché nella nostra società avere un figlio non sia considerato un handicap, ma una ricchezza.

Leggi i dati della ricerca condotta dalle autrici durante il lockdown

Note

[1] La ricerca è stata condotta nell’ambito del Centro di Ricerca Genders dell’Università degli Studi di Milano durante il lockdown tramite questionario online. Il campione (non probabilistico) è composto da 934 casi. Per la presentazione dei principali risultati, si veda Meraviglia C. e Dudka A. (2020), The gendered division of unpaid labour during the Covid-19 crisis: did anything change? Evidence from Italy (in fase di pubblicazione per l’International Journal of Sociology, anteprima disponibile su inGenere).

[2] Dati recenti e aggiornati sui paesi europei sono esposti nel volume di Carriero R. e Todesco L. (2016), Soddisfatte e indaffarate. Donne, uomini e lavoro familiare in Italia, Carocci.

[3] Si veda Manzo L.K.C. e Minello A. (2020), Mothers, childcare duties, and remote working during the Covid-19 lockdown in Italy: Cultivating communities of care, Dialogues in Human Geography, 10, 2, pp. 120-123. 

[4] Si veda inoltre Pailhé, A., A. Solaz, & A. Souletie (2019), How Do Women and Men Use Extra Time? Housework and Childcare after the French 35-Hour Workweek Regulation, European Sociological Review, 35 (6): 807–24. 

[5] Dato tratto dalla relazione annuale sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri relativa al 2019, a cura dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro.


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