Donne e potere, un binomio possibile solo se iniziamo a liberarci dagli stereotipi e dai modelli di leadership maschilisti. Il commento

Donne e potere
un binomio possibile

di Marcella Corsi

Nel bell’articolo pubblicato su inGenere il 10 novembre a firma di Beatrice Covassi si ricorda come "parità significa ripresa" e si fa riferimento ai dati del Gender Equality Index presentati lo scorso 20 ottobre. L’articolo ricorda come il rapporto tra donne e potere è un ambito dove il nostro paese ha un punteggio sotto la media europea in tutte le sue dimensioni: potere politico (49,3), economico (54,9) e sociale (43,1).

Questi indicatori ci dicono che le donne contano ancora troppo poco e che se è doveroso rallegrarsi per le vittorie di donne leader in altri paesi – da Jacinda Adern in Nuova Zelanda a Kamala Harris negli Stati Uniti – sarebbe anche doveroso chiedersi perché da noi questo non accada. 

Si tratta come è evidente di uno snodo cruciale perché senza donne nei ruoli decisionali diventa impossibile portare avanti istanze e visioni politiche nuove e innovative.

Più volte mi sono interrogata su questi temi, e come ho affermato in diverse occasioni, credo fermamente nel ruolo della ‘sorellanza’ come strumento per creare reti di supporto alla leadership femminile.

Le specificità del potere esercitato dalle donne sono state bene illustrate in un articolo comparso su inGenere nel 2014. Ma anche (e forse soprattutto) i serial televisivi possono essere occasione di un ripensamento sul ruolo della leadership femminile e sulla qualità e i vantaggi per tutti, che questa, perseguita e raggiunta con intelligenza e abnegazione, offrirebbe.  

Mi riferisco in particolare alla serie Borgen, disponibile su Netflix, che sta assorbendo il mio poco tempo libero in questo nuovo semi-confinamento. La protagonista è la prima-ministra danese (ovviamente chiamata ministro nella traduzione italiana), per la quale il potere finisce con il diventare perfetto sostituto della sua felicità coniugale, portandola in poco tempo al divorzio, alla messa in discussione del rapporto con i propri figli e addirittura a forme di molestie sessuali nei confronti dei propri collaboratori.

Insomma, anche nella civilissima Danimarca, una donna al potere finirebbe, secondo gli sceneggiatori, con l’assumere il peggiore dei comportamenti maschili, sottolineato dalle citazioni di Machiavelli introdotte in apertura di ogni puntata.

Ho deciso di scrivere questo commento per dire basta, una volta per tutte, a questi stereotipi.

Non sono più i tempi in cui le donne usavano i metodi della seduzione per acquisire potere e, forse, nemmeno più quelli in cui alle donne vengono cedute le posizioni che si sono svalutate nel tempo. Come ricordava Flavia Zucco su inGenere l’anno scorso, Il potere ha bisogno di competenza, di esperienza, di visioni allargate e relazioni empatiche per volgersi al percorso complesso che innovazione e globalizzazione ci hanno aperto davanti. 

Ma alle donne deve essere data la possibilità di usare e gestire il potere nel rispetto pieno di se stesse e delle proprie scelte di vita. Misurarsi col potere nel pubblico, anche in tv e al cinema, penso sia sempre di più una tappa obbligata, anche perché è su questo terreno che ci viene rivolta la sfida più radicale.

Rinunciare a questa sfida significa lasciare ferma la società in una condizione di inadeguatezza e impotenza rispetto a problemi che gli strumenti maschili non governano più. Si tratta di dotarsi di strumenti di analisi innovativi, di elaborare progetti, di fabbricare attrezzi operativi per una nuova cultura di governo. 

I modelli economici, politici e sociali vanno coniugati con la soggettività dei bisogni individuali: i tempi storici dovranno contenere al loro interno i tempi reali, che consentano la fruizione, nello spazio di un’esistenza, di elementi di progresso nella qualità della propria vita. Alla faccia dell’uso strumentale di Machiavelli (o di chi per lui)!


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