Trasparenza salariale come strumento di policy: alcuni spunti e proposte d'intervento a partire dalla legge 162 del 2021 che ha introdotto le modifiche più recenti al Codice delle pari opportunità
La parità ha bisogno
di trasparenza salariale
Tra le recenti modifiche al Codice delle Pari Opportunità introdotte dalla legge 162 del 2021, ce n'è una che merita particolare attenzione: l’estensione del rapporto biennale sulla situazione del personale alle aziende con più di 50 dipendenti (in precedenza la soglia era fissata a 100 dipendenti) e, su base volontaria, a quelle più piccole.
La norma estende significativamente la produzione di informazioni disaggregate per sesso su assunzioni, personale in forza e retribuzioni, con l'intento di contrastare le differenze retributive e, più in generale, la disparità di trattamento tra donne e uomini. Cerchiamo di capire se questo sarà utile e, soprattutto, se può rappresentare la base di nuove strategie di intervento nel mercato del lavoro.
Partiamo dall’inizio. Innanzitutto, se la contrattazione collettiva nazionale, con i suoi minimi salariali differenziati per mansione e livello d’esperienza, dovrebbe già costituire una barriera verso prassi discriminatorie, perché le donne, anche a parità di ore lavorate, guadagnano meno degli uomini?
In primis, persistono forme di segregazione occupazionale che vedono le donne concentrate in settori e lavori con retribuzioni mediamente più basse. C’è poi il tema dell’avanzamento di carriera e della negoziazione di superminimi, bonus e premi di produzione, ambiti in cui permane un ampio margine di discrezionalità datoriale. A risultare svantaggiate sono le giovani donne (ancor prima di diventare madri), e i dipendenti con maggiori responsabilità familiari (troppo spesso una esclusiva delle donne).
Tuttavia, spostando l’attenzione dal “gap” salariale ai valori assoluti delle retribuzioni, si riscontra come certe scelte discrezionali tocchino una fascia molto ampia di lavoratrici e lavoratori.
Secondo i dati amministrativi Inps, nel 2019 il valore mediano delle retribuzioni orarie lorde nel settore privato extra agricolo toccava appena 11,40 euro con un gap del 4% tra il dato maschile (11,75) e quello femminile (10,96 euro). Il gender pay gap raggiunge il 26% considerando i soli impiegati e dirigenti occupati nelle imprese con più di 50 dipendenti mentre si riduce al 10% per gli operai e scende sensibilmente nelle categorie con le retribuzioni più basse, come tra gli under29 (0), nelle aziende con meno di 9 dipendenti (2%), nonché tra gli apprendisti (2%). Per molti lavori comuni, insomma, il gap non si vede semplicemente perché superminimi e premi restano un miraggio; mentre anche i livelli salariali previsti dai contratti collettivi di categoria possono svanire tramite fenomeni di sotto inquadramento o con l’applicazione di contratti ‘pirata’.
Prendendo l’esempio del CCNL del commercio, la paga oraria minima per un/a commesso/a dovrebbe oscillare dai 9 euro per un/a aiutante (quinto livello) fino ai 10,7 per un/a commessa specializzato/a (terzo livello). Il datore di lavoro può comunque “rischiare” con un sotto-inquadramento, ed applicare i 7,6 euro previsti al settimo livello, riservato a garzoni e addetti/e alle pulizie, oppure applicare contratti collettivi più economici, magari siglati da sindacati non rappresentativi (ovvero, i cosiddetti ‘contratti pirata’).
Un altro fenomeno che concorre a tenere bassi i salari è certamente la precarietà lavorativa. Sebbene trasversali al genere, il lavoro a termine e il part-time involontario riguardano maggiormente le donne, in Italia come in diversi paesi europei, come confermano le analisi del progetto WorkYP.
Rafforzare la trasparenza a livello aziendale, non solo su occupazione e retribuzione ma anche sulla quota di lavoratori non standard o sul turnover occupazionale, è quindi cruciale per raggiungere obiettivi di uguaglianza. Ne trarrebbero vantaggio sia quelle donne che si trovano bloccate in percorsi lavorativi privi di opportunità di avanzamento (il cosiddetto soffitto di cristallo), sia la crescente fascia di lavoratrici e lavoratori al margine del mercato del lavoro che non riesce a negoziare una posizione più solida.
Nel nostro ordinamento giuridico abbiamo già qualche esperienza in questa direzione ma si tratta di disposizioni non pienamente operative o rivolte a poche imprese. La legge 162 - che riforma le modalità di predisposizione del rapporto biennale sulla situazione del personale - propone l’utilizzo della trasparenza come strumento di pressione, complementare alla contrattazione collettiva.
Una iniziativa che si potrebbe prendere a esempio è la campagna per un living wage nel Regno Unito, ovvero per una retribuzione superiore al salario minimo legale e adeguata a coprire il costo della vita (attualmente 9,9 sterline, contro le 8,91 previste dal salario minimo legale). La campagna nasce in un contesto dove le relazioni industriali non sono molto strutturate e dove perciò i sindacati devono affidarsi in misura maggiore a iniziative di sensibilizzazione rivolte all’opinione pubblica. I sostenitori agiscono sia premiando le aziende che assicurando salari più alti (si veda il bollino di qualità esposto da una delle aziende aderenti nella figura in basso); sia facendo pressione sulle amministrazioni locali affinché ne incentivino l’adesione con clausole specifiche in appalti e contratti pubblici.
La campagna copre attualmente una minoranza di lavoratori (circa 300.000) ma con una distribuzione capillare nel paese, che ha generato confronti tra amministrazioni e aziende. Al momento è in fase di lancio una seconda campagna, che chiede orari di lavoro e programmazione dei turni dignitosi (“living hours”).
Figura 1. Il bollino del Living Wage esposto nel sito di un hotel aderente
È possibile immaginare una strategia simile in Italia, collegata all’annoso problema del lavoro nero e grigio che gli strumenti tradizionali hanno difficoltà a scalfire? È possibile invitare le aziende, specie gli esercizi pubblici, a riconoscere il valore di quei lavoratori “essenziali”, spesso mal pagati, che hanno tenuto a galla il paese nei momenti più duri della pandemia impegnandosi in una operazione di trasparenza e di promozione del lavoro dignitoso?
Le elaborazioni contenute nel Registro delle Imprese (gestito dalle Camere di Commercio) potrebbero fornire una utile base comune di partenza. Il sistema camerale elabora già a partire dai dati amministrativi per ogni impresa e per le rispettive sedi il numero di lavoratori indipendenti (titolari con reddito misto da capitale e lavoro, come artigiani, commercianti e familiari coadiuvanti), collaboratori e dipendenti. Per le imprese con più di 6 dipendenti, è possibile visualizzare la distinzione di questi ultimi per durata contrattuale (a tempo indeterminato/determinato) e per regime orario (full-time/part-time), come da esempio in figura.
Figure 2 e 3: Esempi delle informazioni sugli addetti di impresa disponibili in una visura camerale
Fonte: Registro delle Imprese, 2022
Premesso che l’elaborazione disponibile nel registro andrebbe migliorata includendo la distribuzione per genere, il decreto che innoverà il modello del rapporto sulla situazione del personale potrebbe prendere spunto proprio da tali dati per integrare le informazioni su retribuzioni e disparità di genere con una panoramica complessiva delle dinamiche contrattuali capaci di influenzarle.
Anche le amministrazioni locali potrebbero promuovere forme di trasparenza sulle condizioni retributive e contrattuali ai fini dell’assegnazione di contratti pubblici oppure per beneficiare di particolari misure.
Due esempi: la possibilità di occupare temporaneamente suolo pubblico per bar e ristoranti; la partecipazione a iniziative di natura commerciale promosse dall’amministrazione (come fiere, attività di valorizzazione dei centri commerciali naturali, servizi di formazione e consulenza).
In tal caso si potrebbe chiedere alle imprese di esporre nei locali, nei siti web e nei profili social informazioni semplici e aggiornate se non sulla retribuzione mediana per genere, perlomeno sul contratto collettivo applicato e sulla consistenza del personale a tempo indeterminato e a termine per genere, unito a uno slogan che renda esplicito il messaggio (ad esempio: “Qui il lavoro è regolare”).
A fronte della cronicità del lavoro nero e precario in Italia, richiamare le imprese a comunicare il proprio impatto sociale, fornendo strumenti di confronto tra le imprese stesse, nonché con amministrazioni, sindacati, lavoratori e clienti, potrebbe restituire alla dignità del lavoro l’attenzione che merita nella cultura del paese prima che nella legislazione, come sta lentamente avvenendo, grazie a mobilitazioni decennali, nell’ambito dei diritti civili o della tutela dell’ambiente.
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