Gender pay gap, cosa possiamo imparare dal Regno Unito in tema di trasparenza salariale. Punti di forza e di debolezza del modello inglese, in attesa dei prossimi passi della commissione lavoro

A novembre 2020 è stata approvata dalla Commissione lavoro una proposta di legge per modificare la normativa sulla trasparenza salariale in Italia. Le modifiche proposte potrebbero rendere la normativa più efficace, ma non abbastanza per avere un impatto concreto sul divario salariale.
La trasparenza salariale è stata da tempo identificata come uno strumento utile per far emergere il divario retributivo tra donne e uomini, l’Unione Europea aveva già 6 anni fa introdotto la trasparenza di genere nelle retribuzioni nelle sue raccomandazioni e la trasparenza è stata inclusa nelle azioni per ridurre il pay gap nella strategia 2020-2025 sulla gender equality.
Per capire quali elementi rendono più o meno efficaci le leggi a riguardo e valutare meglio la normativa italiana si può fare un confronto con l’esperienza del Regno Unito, dove nel 2017 è stato introdotto il gender pay gap reporting che già nel 2019 ha raggiunto il 100% di adesione da parte delle aziende.[1]
Il caso del Regno Unito
Nonostante in molti paesi ci siano leggi sulla trasparenza salariale, queste tendono a concentrarsi sull’applicazione del principio dell’equal pay for equal work, che prevede di retribuire allo stesso modo due persone che svolgono le stesse mansioni. L’approccio inglese va oltre questo principio (che per legge deve essere rispettato dal 1970) e si concentra sulla differenza salariale media tra tutte le donne e tutti gli uomini in una determinata azienda.[2]
Nell’aprile 2020, il gender pay gap nel Regno Unito era 15,5%, 12 punti percentuali in meno rispetto al 1997, anno a partire dal quale sono disponibili dati ufficiali. L’Office for National Statistics, che produce queste statistiche, ritiene che nonostante i dati del 2020 includano un periodo successivo all’inizio dell’emergenza Covid19, questo non abbia influito sui trend sottostanti. Nel 2019 il 72% delle donne tra i 16 e 64 anni erano occupate. Tuttavia, nonostante rispetto ad altri paesi il Regno Unito presenti un tasso di occupazione femminile relativamente alto (più alto ad esempio delle medie Ocse, G7 e Eu27), questo rimane 8 punti percentuali al di sotto di quello maschile.
Nel 2011, il governo inglese ha lanciato l’iniziativa di reporting volontaria Think, Act, Report per promuovere una cultura di trasparenza nel mondo del lavoro e aiutare le aziende ad affrontare le cause del gender pay gap. Alla fine dei tre anni dell’iniziativa, più di 250 organizzazioni, che impiegavano più di 2,5 milioni di persone avevano partecipato.
Nel 2015 è stata annunciata l’introduzione del gender pay gap reporting obbligatorio, introdotto poi per legge nel 2017 con l'Equality Act.
Dall’aprile 2018 tutte le organizzazioni del settore privato e del terzo settore con 250 o più impiegati sono obbligate a pubblicare una serie di dati in materia, e normative analoghe esistono per il settore pubblico.
Al momento della sua introduzione, il gender pay gap reporting copriva circa 10.000 organizzazioni. L’Equality and Human Rights Commission (EHRC), organismo pubblico ma indipendente, è responsabile di garantire il rispetto degli obblighi del reporting e assicurarsi che le informazioni pubblicate siano corrette.
Nel 2019, alla scadenza di aprile, il 96% delle organizzazioni aveva pubblicato i dati, il 99% a luglio e il 100% in agosto grazie all’intervento dell’EHRC, che comunque è stato ridotto e informale.
Le aziende non sono obbligate a pubblicare piani di azione per dimostrare come stanno cercando di chiudere il loro gender pay gap, ma nel 2019, 52% delle organizzazioni ha pubblicato un piano di azione, più o meno con lo stesso livello dell’anno prima.
Il reporting ha anche aiutato a focalizzare l’attenzione e il dibattito pubblico su queste tematiche. Uno studio commissionato dal governo nel 2019 su 900 aziende, mostra che il livello di comprensione relativo a cosa sia effettivamente il gender pay gap è aumentata. Nel 2017 il 48% degli intervistati ha dichiarato di averne una buona comprensione e il resto di avere una comprensione ragionevole. Nel 2018 e 2019 la proporzione è salita all’82% e 89%. Inoltre, quasi il 60% del campione crede che questo abbia permesso di aprire discussioni su altri aspetti di diversità e inclusione.
Caratteristiche principali dell'approccio inglese
Vediamo nel dettaglio le caratteristiche che differenziano l’approccio inglese da quello di altri paesi europei.[3]
Un focus specifico sul gender pay gap. Il governo inglese ha incluso solo sei indicatori nell’obbligo del reporting, relativamente facili da calcolare, tra cui due misure del gender pay gap (usando la media e la mediana salariale). Il focus del gender pay gap reporting è stato chiaro fin da subito, tramite anche una forte spinta istituzionale nello spiegare cosa sia il gender pay gap e come sia diverso dall’equal pay.
Completa trasparenza. Le aziende sono tenute a pubblicare i dati sul proprio sito web e caricarli su un portale governativo. Inoltre, il governo ha creato una pagina web dove chiunque può consultare liberamente i dati di ogni azienda.
Sanzioni leggere. Nonostante l’organismo responsabile di garantire il rispetto della normativa abbia i poteri per multare e condannare le aziende che non pubblicano i loro dati, di solito le organizzazioni vengono approcciate in modo informale e finora è stata applicata solo una politica di name and shame, pubblicando i nomi delle aziende che non rispettano le scadenze.
Punti di forza e di debolezza
Il reporting è stato introdotto da poco perciò non è ancora possibile valutare il suo impatto sul gender pay gap, ma analizzandone le caratteristiche possiamo comunque identificare alcuni dei suoi punti di forza e di debolezza.
Innanzitutto, rispetto alle normative che si concentrano solo sul principio dell’equal pay, il focus sul gender pay gap ci dà la possibilità di avere un quadro più completo sulla parità di genere nelle aziende, portando alla luce problemi che vanno oltre la discriminazione diretta, come la scarsa rappresentanza di donne ai vertici.
Risultati empirici sull’efficacia delle misure di trasparenza in altri paesi dimostrano come la semplicità dei requisiti e la chiarezza nelle linee guida governative siano importanti per un rispetto delle normative. Questo si riscontra nel caso del reporting inglese dove già al secondo anno di reporting il 100% delle aziende aveva pubblicato i dati richiesti.[4]
Rendere i dati completamente pubblici è poi fondamentale e funziona particolarmente bene in un contesto come quello inglese dove la responsabilità sociale e la reputazione delle aziende è molto importante.
Tuttavia, sanzioni così leggere rischiano di non avere trazione nel lungo periodo. Inoltre, l’assenza di un obbligo per la pubblicazione di un action plan o di un qualsiasi monitoraggio delle attività aziendali per restringere il loro gender pay gap rischia di far rimanere questa normativa un mero esercizio burocratico.
Infine, la soglia di 250 dipendenti per far scattare l’obbligo di reporting è alta, rendendo la copertura della normativa limitata.[4]
Cosa può imparare l’Italia
La legge italiana richiede ad aziende con più di 100 dipendenti di fornire ogni due anni un rapporto sul personale maschile e femminile per fascia professionale alle rappresentanze sindacali e alle consigliere regionali di parità. Il rapporto deve includere una serie di informazioni, tra cui quelle salariali.
L’impatto e il rispetto della normativa italiana è stato finora limitato, anche a causa del basso profilo di queste tematiche nel dibattito pubblico. Perciò, un approccio più simile a quello inglese per quanto riguarda la trasparenza, il focus sul gender pay gap e la richiesta chiara di dati standardizzati, potrebbe aiutare.
Negli ultimi anni sono state presentate varie proposte di legge per modificare la normativa vigente.[5] Queste proposte sono state recentemente accorpate e il testo unico risultante è stato approvato dalla Commissione lavoro a novembre 2020. È incoraggiante notare che le modifiche approvate si concentrano proprio sugli aspetti che, in base all’analisi del reporting inglese, potrebbero migliorare la normativa italiana.
Infatti, le modifiche introdurrebbero una maggiore trasparenza tramite la pubblicazione della lista di aziende che rispettano o no l’obbligo e l’accesso al rapporto da parte dei dipendenti che ne fanno richiesta. Questo approccio rimarrebbe lontano dallo standard inglese, ma visto il contesto normativo e culturale italiano, lo standard di trasparenza inglese potrebbe non essere un target realistico.
Alcune proposte potrebbero, in teoria, rendere la normativa italiana più efficace di quella inglese, tra queste: l’abbassamento a 50 della soglia di dipendenti oltre la quale la normativa è valida, l’introduzione di una certificazione per le aziende virtuose e l’introduzione del dovere per la consigliera nazionale di parità di monitorare gli effetti della normativa sulle pari opportunità nel lavoro. Queste modifiche potrebbero anche aiutare a rendere la normativa italiana e i problemi sul divario salariale più conosciuti, ma ci sarebbe comunque bisogno anche di uno sforzo istituzionale di sensibilizzazione su queste tematiche per fare davvero la differenza.
Purtroppo, continua ad essere assente l’obbligo di pubblicare piani di azione per favorire la parità di genere in modo proattivo. Questa rimane una grave mancanza, dato che la trasparenza, benché utile, non potrà da sola restringere il gender pay gap e per un miglioramento sostanziale è necessario intervenire sulle sue cause tramite azioni concrete per attuare un profondo cambiamento culturale.
Riferimenti
Eurofund Working Paper, Measures to promote gender pay transparency in companies: How much do they cost and what are their benefits and opportunities?, 2020
Aumayr-Pintar et al., Pay transparency in Europe: First experiences with gender pay reports and audits in four Member States, 2018, aggiornato a novembre 2020
The Fawcett Society, King’s College London, Reuters Foundation, Gender pay gap reporting: a comparative analysis, 2020
European Commission, Pay transparency in the EU. A legal analysis of the situation in the EU Member States, Iceland, Liechtenstein and Norway, 2017
Bollettino delle giunte e delle commissioni parlamentari, Lavoro pubblico e privato (XI), comunicato del 4 novembre 2020
Audizioni sulle pari opportunità, Commissione Lavoro, gennaio 2020
Government Equalities Office, Mandatory Gender Pay Gap Reporting. Summary of reported data for 2018/19, 2019
Note
[1] I dati del 2019 sono i più recenti, dato che il reporting è stato sospeso nel 2020 e rimandato di 6 mesi nel 2021 a causa dell’emergenza COVID-19.
[2] Il gender pay gap indica la differenza salariale tra uomini e donne e viene calcolato come la differenza tra il salario orario medio maschile e quello femminile, espresso come percentuale del salario orario medio maschile.
[3] Leggi vigenti in altri paesi presentano alcuni degli elementi del reporting inglese, ma nessuno nella stessa combinazione. Ad esempio, dove le informazioni sono pubbliche, non c’è un requisito a sé stante sul gender pay gap (come in Francia) e dove invece un focus sul gender pay gap esiste i dati non sono disponibili pubblicamente (come in Austria).
[4] Nel 2019 stime governative riportano che 40% della forza lavoro (nel settore privato) lavorava in aziende con più di 250 dipendenti. In Europa, solo la solo la Germania applica una soglia più alta (500).
[5] Proposte C. 615 (Gribaudo ed altri), C. 1925 (CNEL) e C. 1345 (Benedetti ed altri) e C. 522 (Ciprini).