Dal contrasto del gender pay gap alla rilevanza del lavoro di cura nel divieto di discriminazione, passando per la presenza delle donne negli organi delle società pubbliche anche non quotate: come cambia il 'Codice delle pari opportunità' con la legge 162
Il lungo viaggio verso la parità uomo-donna nel lavoro ha conosciuto tappe fondamentali fin dalla legge 903 del 1977 per proseguire con la legge 125 del 1991, poi approdate nel Codice delle pari opportunità, ma è stato messo a dura prova da ultimo anche dai fenomeni connessi alla pandemia, come risulta dai dati statistici sulla disoccupazione femminile, sul maggiore ritardo delle donne nella ripresa del lavoro rispetto agli uomini, e sulla persistenza del gender pay gap.
La recente legge 162 costituisce un’ulteriore importante tappa, affrontando alcuni nodi connessi sia al contrasto del gender pay gap sia alla rilevanza del “lavoro di cura” nella configurazione del divieto di discriminazione, senza dimenticare la promozione della presenza femminile negli organi delle società pubbliche anche non quotate. Le modifiche normative attinenti la nozione di discriminazione, sia diretta sia indiretta, sono di immediata applicazione, a differenza di quelle riguardanti il rapporto sulla situazione del personale (art.46) e sulla certificazione della parità retributiva (art.46-bis) subordinate alla emanazione dei decreti attuativi.
In tema di discriminazione, una delle modifiche è limitata all’inserimento nel testo vigente (art.25, c.1 e art.25, c.2 Codice delle pari opportunità) dopo la parola “discriminando” della frase “i candidati e le candidate in fase di selezione del personale”. Si tratta di una specificazione che si limita, per la verità, a ribadire la tutela già disposta dal successivo art.27, c.1, secondo cui il campo di applicazione del divieto riguarda anche i criteri di selezione sia nelle fasi precedenti la costituzione del rapporto di lavoro, sia quelli di promozione, in qualunque settore e a qualunque livello della gerarchia professionale.
Di maggiore impatto è la modifica apportata alla nozione di discriminazione indiretta che attribuisce più ampia rilevanza alle questioni attinenti la conciliazione tra lavoro professionale e cura, in modo coerente non solo con l’art.37 della Costituzione, ma anche con l’art.33 della Carta europea dei diritti fondamentali e con la recente direttiva n.19/1158 Ue sul work-life balance. La norma novellata segna l’ingresso delle esigenze “di cura personale e familiare”, oltre quelle genitoriali, fra i motivi tutelati dal divieto di discriminazione permettendo in tal modo il riconoscimento della tutela antidiscriminatoria in senso più ampio, coerentemente con i valori costituzionali ricordati che impongono, oltre all’eguaglianza retributiva tra uomini e donne per lo stesso lavoro o lavoro di eguale valore, “condizioni di lavoro in grado di assicurare lo svolgimento della essenziale funzione familiare”.
Altra importante novità è costituita dall’inclusione “anche delle modifiche di natura organizzativa, o incidenti sull’orario di lavoro”, tra i “comportamenti” possibili cause di discriminazione ai sensi dell’art.25, c.2. A tale revisione si riallaccia quanto previsto al comma 2-bis mediante l’inserimento, accanto ai “trattamenti”, anche di “ogni modifica dell’organizzazione, delle condizioni e dei tempi di lavoro, che in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura, personale e familiare” (oltre a quelle già previste di cura genitoriale, gravidanza, maternità e paternità o all’esercizio dei relativi diritti) ponga il lavoratore o la lavoratrici in determinate condizioni negative specificate nel comma successivo.
L’ampia accezione della discriminazione vietata, in particolare se riferita agli orari di lavoro, aveva già trovato apprezzabili riscontri in giurisprudenza sulla scorta della disposizione dell’art.7, T.U. 165/2001, che nelle pubbliche amministrazioni impone di tener conto di esigenze legate alla cura e alla genitorialità in capo ai dipendenti. Tale regola assume ora portata generale, sottoponendo allo scrutinio giudiziale anche le scelte organizzative in senso più ampio.
I presupposti che rendono discriminatorie le modifiche organizzative e gli orari di lavoro sono individuati in modo analitico dal nuovo art.25, c.2-bis e devono consistere in almeno una delle seguenti condizioni: porre i lavoratori/trici in una condizione di svantaggio rispetto alla generalità dei lavoratori; limitare le opportunità di partecipazione alla vita e alle scelte aziendali; limitare l’accesso ai meccanismi di avanzamento e progressione di carriera. La prima condizione, pur essendo riconducibile alla nozione vigente di discriminazione indiretta quale trattamento o comportamento apparentemente neutro ma fonte di “particolare svantaggio” nei confronti dei soggetti tutelati dai divieti di discriminazione, ne fornisce una nozione più estesa, essendo omesso l’aggettivo “particolare”, ma richiede che la comparazione si riferisca alla generalità dei lavoratori. La formula indeterminata del termine “svantaggio” è suscettibile, pertanto, di investire molte situazioni, oltre a quelle elencate nel prosieguo dell’articolo.
L’innovazione legislativa è ricca di implicazioni, permettendo di sottoporre al vaglio del giudice decisioni inerenti sia i trasferimenti individuali sia le modifiche degli orari, come l’introduzione del lavoro a turni, anche notturni, la richiesta di lavoro straordinario etc. In fase applicativa si potrà porre la questione del bilanciamento rispetto alla eventuale rilevanza delle esigenze in capo al datore di lavoro, da valutarsi alla luce della definizione complessiva della disposizione in materia di discriminazione indiretta che imporrà una valutazione rigorosa da parte della giurisprudenza. La disposizione potrà coordinarsi, altresì, in un più ampio quadro di riconoscimento del valore della “cura”, con la previsione di cui all’art.9, direttiva n. 19/1158, ancora non trasposta, che riconosce il diritto individuale a presentare richiesta di ottenere flessibilità dell’orario o del rapporto di lavoro per esigenze di cura, che deve essere presa in seria considerazione dal datore di lavoro il cui eventuale rifiuto deve essere motivato.
Le modifiche concernenti il “rapporto sulla situazione del personale”, strumento cruciale per individuare situazioni di diseguaglianza se non di vera e propria discriminazione, sono da valutare positivamente sotto il profilo della riduzione a 50 dipendenti della soglia dimensionale delle aziende obbligate – sull’esempio francese – e della maggiore specificità dei dati da trasmettere. In materia retributiva essi dovranno riguardare, in modo distinto per uomini e donne, oltre alle “retribuzioni iniziali”, ciascuna delle diverse componenti della retribuzione individuale non solo secondo il livello di inquadramento professionale ma anche delle specifiche mansioni svolte, e le altre diverse voci, comprese le erogazioni “ad personam”.
Si intende così superare uno dei principali ostacoli al contrasto delle discriminazioni retributive, dovuto al fatto che i dati contenuti nel rapporto sulla situazione del personale sono forniti in modo eccessivamente aggregato, compromettendo la trasparenza dei sistemi retributivi e dei criteri applicati per valutare la professionalità individuale. L’art.46 novellato ammette, peraltro, la possibilità di aggregazione per “aree omogenee”, termine il cui significato verrà chiarito dai decreti attuativi, auspicabilmente in modo da promuovere la migliore realizzazione dell’obiettivo cui tende la legge.
Un nodo rilevante demandato al decreto attuativo riguarda le modalità di accesso ai dati del rapporto, che dovrà essere assicurato, pur nel rispetto della privacy, non solo ai soggetti già indicati dal diritto vigente – ovvero le rsa/rsu e le consigliere/consiglieri di parità regionali, cui si aggiungono quelli delle città metropolitane – ma anche nei confronti dei dipendenti (art. 46, c. 3, lett. c).
La legge non prevede alcun diritto individuale a vantaggio della lavoratrice/lavoratore di chiedere al datore di lavoro di conoscere, oltre alla propria retribuzione, anche quella di chi svolge mansioni analoghe, come invece previsto dalla proposta di direttiva europea approvata dalla Commissione il 4 marzo 2021. Di conseguenza, il diritto di accesso dei dipendenti al rapporto sulla situazione del personale è cruciale per poter constatare l’eventuale disparità salariale e permettere di avviare l’azione in giudizio.
Nel rapporto devono essere indicati, inoltre, i criteri delle assunzioni e dei reclutamenti e dell’accesso alla formazione professionale e manageriale, nonché i criteri per la progressione di carriera. Pertanto, l’incisività ai fini del contrasto alle discriminazioni resta affidata alla correttezza con cui verrà compilato il rapporto, posto sotto il controllo dell’ispettorato del lavoro e con rafforzamento dell’apparato sanzionatorio, e alla esattezza della sua interpretazione che, peraltro, richiederebbe l’opera di esperti e l’istituzione di appositi fondi. Inoltre, dovranno essere menzionate le politiche volte alla conciliazione tra tempi di vita e di lavoro e alla garanzia di un ambiente di lavoro “rispettoso ed inclusivo”. Da quest’ultima precisazione si può dedurre che dovranno risultare anche le misure adottate per evitare le molestie e le molestie sessuali, tema che si riallaccia non solo al diritto antidiscriminatorio ma altresì alla Convenzione Oil n.190/2019 recentemente ratificata.
La legge 162 non affronta il tema dei rimedi da applicare una volta constatata l’esistenza di disparità retributive, che sono riconducibili nell’ambito delle azioni di tutela previste dal Codice delle pari opportunità, a carattere individuale e collettivo, ricordando che in quest’ultimo caso la/il consigliera/e di parità ha la legittimazione ad agire direttamente avanti al giudice, ed è esperibile l’ordine di avviare un “piano di correzione delle discriminazioni” nei confronti del datore di lavoro.
L’introduzione della procedura di “certificazione”, secondo l’art. 46-bis, essendo svincolata da limiti dimensionali, è complementare anche alla previsione circa la redazione volontaria del “rapporto sulla situazione del personale” da parte dei datori di lavoro sotto la soglia di 50 dipendenti (art. 46, c.1-bis). La “certificazione” permette alle aziende virtuose di accedere a vantaggi contributivi e altri istituti di premialità relativi ai bandi di gara per fondi europei o per l’aggiudicazione degli appalti, come già previsto per i fondi connessi ai PNRR. Il presupposto è costituito dall’attuazione di policies aziendali intese a promuovere la parità retributiva, le opportunità di progressione di carriera delle lavoratrici, nonché la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro, anche con riguardo ai “lavoratori di sesso femminile in gravidanza” e più in generale alla gestione delle differenze di genere.
La certificazione si dovrà uniformare a parametri da definirsi dal decreto attuativo, e sarà affidata ad un Comitato di esperti/e, e con il coinvolgimento, sempre in forme da definirsi, delle rappresentanze sindacali e degli organismi istituzionali della parità. Il supporto costituito da questa sorta di “bollino rosa” potrà dispiegare effetti positivi sull’attuazione della parità tra uomini e donne almeno finché permarranno le premialità. Non è ben chiaro, peraltro, quale rapporto si instaura nel quadro complessivo tra questo istituto e le tradizionali “azioni positive” con il medesimo contenuto, ma sottoposte a differenti procedure di finanziamento e con un ruolo più accentuato riservato ai sindacati.
L'articolo originale è comparso su Labourlawcommunity.org
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