A quattro mani una sociologa e una deputata scrivono della proposta di legge sul congedo di paternità  obbligatorio in Italia: solo quattro giorni,  nel testo in discussione alla camera. Un primo passo simbolico per rompere l'equazione tra donne e cura; e per incontrare un crescente desiderio maschile

Prova di paternità.
A casa con i bimbi

di Alessia Mosca, Elisabetta Ruspini

Questo articolo vuole brevemente riflettere sul senso e sull’opportunità della proposta di legge, attualmente in discussione in parlamento (Alessia Mosca, Pd, è la prima firmataria insieme a Barbara Saltamartini, PdL), finalizzata ad istituire un congedo di paternità obbligatorio (come lo è quello di maternità) nel nostro paese. Si tratta di una tematica alquanto attuale, data anche la recentissima decisione presa dal parlamento europeo in merito all’allungamento dei congedi di genitorialità: per i padri, due settimane obbligatorie per accudire i neonati senza dover chiedere permessi speciali e al 100% dello stipendio. Le donne, invece, potranno usufruire di almeno venti settimane a retribuzione invariata (soglia inferiore rispetto ai cinque mesi garantiti in Italia, ma più alta rispetto ad altri contesti, ad esempio la Germania o la Gran Bretagna). Il testo introduce chiaramente vincoli minimi: gli stati restano liberi di mutare o mantenere i regimi nazionali in merito (vedi articolo di Del Boca e Pasqua su lavoce.info).
L’Italia, nel panorama europeo, presenta alcuni elementi distintivi: comportamenti demografici ancora “tradizionali”, se paragonati ad altre società europee; enfasi sulla qualità della cura intrafamiliare; un modello di welfare costruito, più di altri, sull’obbligo morale della sussidiarietà familiare (secondo la quale la famiglia, allargata alla rete parentale, è chiamata a sostenere, proteggere, rigenerare); sul prolungamento indefinito dei legami economici tra le generazioni; sul ruolo delle reti intergenerazionali femminili, considerate responsabili del lavoro di cura. Come è facile comprendere, la sopravvivenza di tale sistema è dipendente da definizioni di mascolinità e femminilità antitetiche e da relazioni che presuppongono un preciso sistema di dipendenze e interdipendenze tra generi (lei che dipende dallo stipendio di lui; il lavoratore che viene sostenuto dalle cure femminili) e tra generazioni (modelli di maternità e paternità “preferiti” o “ostacolati”).
Anche in Italia, però, le sollecitazioni generate dal mutamento sociale si sono intensificate e oggi costituiscono una sfida per la tradizionale divisione del lavoro femminile e maschile. Ciò è strettamente connesso con il mutare delle identità di genere e, conseguentemente, delle relazioni tra donne e uomini. Ci troviamo in effetti in un momento storico in cui si stanno ridisegnando (grazie alla crescente porosità e lungimiranza di cui le nuove generazioni sono portatrici) i confini delle dipendenze/interdipendenze di genere: se permangono le divisioni tra “maschile” e “femminile” che hanno caratterizzato la storia passata, tali divisioni devono al contempo confrontarsi con i radicali mutamenti che hanno investito i corsi di vita.
Sul versante maschile, gli uomini paiono sempre più disposti a dialogare con il proprio corpo e con la propria fisicità (Ruspini, 2009). Non si può, poi, non riconoscere la crescente assunzione di responsabilità da parte dei padri in particolare tra le generazioni più giovani sin dai primi giorni della nascita dei figli, al contempo un segnale della maggiore capacità contrattuale delle donne all’interno della coppia. Sono pertanto in significativa crescita gli uomini pronti a mettere in discussione il modello stereotipato di mascolinità e, contemporaneamente, desiderosi di esplorare una parte di sé per molto tempo messa a tacere: parliamo delle funzioni (ed opportunità) di cura e di socializzazione (cfr. tra gli altri, Zajczyk e Ruspini, 2008).
Il crescente desiderio maschile di essere soggetto attivo nel lavoro educativo e familiare può essere incentivato da politiche sociali volte a favorire la conciliazione tra vita familiare e lavorativa e ad incoraggiare e sostenere la presenza paterna nella cura dei figli. In questa direzione si inserisce la proposta di legge per un congedo obbligatorio di paternità. Ricordiamo che l’astensione obbligatoria dal lavoro post-parto può oggi essere fruita dal padre in uno dei seguenti casi (diritto indiretto): grave malattia o morte della madre; abbandono e affidamento esclusivo del bambino al padre; madre che non lavora o non è lavoratrice dipendente (per ulteriori riflessioni sui congedi di paternità si veda l’articolo di Stefania ScarponiLavoro e famiglia, proposte in corso” e “Papà a casa dopo il parto”).


2. La proposta di legge


È sulla base di tali ed altre considerazioni che è nata la proposta di legge per istituire un congedo obbligatori di paternità, un’iniziativa legislativa che si pone come obiettivo quello di estendere sia i diritti per i neogenitori, che la condivisione delle responsabilità di cura nella coppia.
Nei fatti, la normativa italiana sui congedi parentali − previsti dal “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità”, approvato con il decreto legislativo n. 151 del 26 marzo 2001 − induce solo la madre a usufruire del congedo. Una situazione che relega − quasi in toto − alla figura materna il compito di crescere un figlio nei primi mesi di vita. Di conseguenza penalizzando la neo mamma nella vita professionale, e al contempo limitando le responsabilità del padre nell’educazione dei figli. Esiste a dire il vero la possibilità, sancita da quella norma, che anche i padri possano usufruire di congedi parentali − in alternativa alla madre − ma sono una quota inferiore al 2% ne fa effettivamente richiesta.
Quasi tutti i paesi europei hanno introdotto un congedo post-parto di paternità obbligatorio e retribuito al 100% che varia da due a sette giorni in base ai diversi ordinamenti (in Spagna, ad esempio, sono previsti due giorni di retribuzione piena e 13 giorni comunque parzialmente retribuiti; cfr. articolo “Lavoro e famiglia, proposte in corso”). Una scelta suffragata da autorevoli ricerche che dimostrano come la presenza del padre nella vita dei figli costituisca un elemento positivo e necessario per la loro crescita, anche in termini di un maggiore attaccamento a entrambi i genitori (Bruzzese e Romano, 2006).
La proposta di legge presentata alla camera si inserisce nel filone delle migliori esperienze in materia, puntando a perfezionare la normativa nazionale attualmente in vigore. In particolare, introduce l’obbligo per i neo padri di astenersi dal lavoro nei quattro giorni successivi o a cavallo della nascita del figlio. Quattro giorni con valore simbolico, ma che costituiscono il primo passo verso la rottura dell’equazione donne=cura, dunque verso un cambiamento culturale. La fruizione del congedo dovrà essere preceduta da una comunicazione al datore di lavoro. I costi sarebbero a carico del datore di lavoro, nel caso dei lavoratori dipendenti, e del sistema previdenziale (Inps), nel caso degli autonomi. Un’altra parte della proposta di legge è riservata a rafforzare le tutele per la madre, elevando dall’80 al 100% della retribuzione normale l’indennità giornaliera spettante alle lavoratrici per tutto il periodo del congedo di maternità. Inoltre la proposta interviene per ampliare di 15 giorni il congedo retribuito al 100% qualora sia il padre a usufruirne.
La convergenza di opinioni riscontrata in parlamento anche da parte di esponenti della maggioranza lascia ben sperare, anche se ci deve essere una volontà politica del governo a coprire le spese che la proposta, nel suo complesso, prevede. L’esperienza svedese insegna che la diffusione del congedo tra i papà dipende certamente da fattori culturali, ma anche da un sistema di incentivi che lo rendano sostenibile per le famiglie: da qui l’importanza di una piena retribuzione per almeno una parte del congedo obbligatorio.
Vogliamo però ricordare che l’approccio tenuto fino ad ora dal governo, che ha preso avvio da una giusta esigenza di razionalizzazione delle spese, si è tradotto per questa maggioranza in una politica di tagli spesso indiscriminati, senza distinguere tra lotta agli sprechi e misure che possono costituire un sostegno alla crescita. In più, le famiglie non sono certo state la priorità numero uno di una compagine governativa che, troppo sovente, celebra ed invoca un solo modello di famiglia. Utilizza inoltre tale “idealtipo” per inasprire la competizione politica ma, in concreto, non ha approvato nulla che andasse nella direzione di un sostegno concreto ed esplicito alle famiglie nella loro ricchezza e pluralità, ad esempio con finanziamenti o politiche ad hoc. Con il risultato che il nostro paese continua ad essere quello in cui la percentuale del Pil speso per le famiglie (dunque per figli, padri e madri) è tra le più basse in Europa.


Riferimenti bibliografici essenziali

- Bruzzese D. e Romano M.C. (2006), “La partecipazione dei padri al lavoro familiare nel contesto della quotidianità”, in A. Rosina e L.L. Sabbadini, op. cit., pp. 213-247.
- Micheli G.A. (2007), “Paternità inceppata vuol dire paternità in ceppi. Le gabbie che tengono una rivoluzione in stallo”, in E. Dell'Agnese e E. Ruspini (a cura di), Mascolinità all'italiana: costruzioni, narrazioni, mutamenti, Utet, Torino, pp. 189-208.
- Rosina A., Sabbadini L.L. (a cura di) (2006), Diventare padri in Italia. Fecondità e figli secondo un approccio di genere, Collana Argomenti, Istat, Roma.
- Ruspini E. (2009, a cura di), Uomini e corpi. Una riflessione sui rivestimenti della mascolinità, FrancoAngeli, Milano.
- Zajczyk F., Ruspini E. (2008), Nuovi padri? Mutamenti della paternità in Italia e in Europa, Baldini Castoldi Dalai, Milano.



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