Cosa pensano le ragazze dei corpi e delle identità? Ne parliamo con Francesca Brunori e Silvia Marino, due laureate che dopo aver partecipato alla Rena Summer School hanno fondato il collettivo Anomala, per costruire una lettura femminista del presente

Il femminismo
delle ragazze

Più di quaranta persone con vissuti, provenienze e posizionamenti diversi che si incontrano per parlare e confrontarsi sui significati della parola intersezionalità. È successo a settembre a Matera per Intersezioni, la Summer School del Progetto Rena, un percorso di scambio con laboratori e panel dedicati all’approccio intersezionale nell’insegnamento, nell’analisi dei dati e degli algoritmi, nella ricerca e in altri settori. 

Ne parliamo con Francesca Brunori e Silvia Marino, che dopo aver preso parte all'iniziativa hanno fondato il collettivo Anomala. Francesca, laureata in Scienze internazionali con una tesi sulla violenza di genere nella tratta a fini di sfruttamento sessuale, attualmente sta svolgendo il servizio civile in un ente antitratta. Silvia, laureata in Filosofia con una tesi sull’intreccio tra epistemologia sociale e femminismo intersezionale, lavora in un’associazione per il contrasto alla violenza di genere. In questa breve intervista ci raccontano il femminismo visto da due giovani donne nei tempi delle tecnologie digitali e della pandemia.

Qual è stata la cosa più importante che vi è rimasta dopo aver preso parte all'esperienza di Matera e come ha impattato sui vostri percorsi?

Un tassello fondamentale è stata sicuramente l’idea che per costruire una lettura condivisa del presente e stimolare un cambio di prospettiva sia necessario dotarsi di uno spazio di condivisione. Infatti, il cuore dell’esperienza che abbiamo vissuto a Matera può essere racchiuso nella parola “rete”: una rete di idee, vissuti e desideri in cui poter costruire elaborazioni e progetti collettivi. Proprio per non lasciar dissipare le sinergie createsi a Matera abbiamo deciso di dar vita a un collettivo di ricerca informale, transfemminista e intersezionale, che abbiamo chiamato "Anomala". Questo nome ci ricorda il cambiamento travolgente e trasformativo che vogliamo portare nella società, le modalità di ricerca anticonvenzionali di cui ci dotiamo e, infine, l’anomalia che scegliamo di coltivare nella nostra quotidianità. Intersezioni e conseguentemente Anomala sono nate dalla consapevolezza che la pandemia da Covid-19 ha determinato un inasprimento delle disuguaglianze, fattore che ha determinato l’aumento della marginalizzazione sociale, economica e professionale. Inoltre, la circolazione eccessiva di numeri, percentuali e dati, aumentata esponenzialmente dall’inizio dell'emergenza pandemica, ha comportato una sorta di anestetizzazione emotiva alla morte, alla malattia e alle fragilità delle persone.

Dopo l'entusiasmo di aver dato inizio a qualcosa di nuovo, come avete messo in pratica queste energie? Oggi che cosa fa Anomala?

Oggi, soprattutto dopo la pandemia, ci sembra fondamentale interrogarci sulle cause dell'emarginazione sociale ma anche trovare strumenti adeguati a interpretarle per costruire strategie di contrasto e prospettive alternative. L'ambizione di Anomala è quella di concentrarsi sull’importanza dell’approccio intersezionale, sul ruolo rivoluzionario che hanno le emozioni e sulla necessità di ripensare la nozione di cura come un processo essenziale per tutte le persone. Anomala ha scelto quindi di coltivarsi come un hub di intelligenza collettiva e femminista, che produca un sapere condiviso e "pluriversale", incarnato nelle esperienze individuali, che tiene conto della dimensione corporea, esperienziale e desiderante di chi questo sapere lo produce. Crediamo che solo in questo modo la produzione di sapere possa produrre cambiamenti radicali. 

In che modo? 

Se la nostra vita si svolge sempre in rete e in reti, allora non possiamo che parlare di intelligenza come qualcosa che dovrebbe propagarsi tra e verso insiemi sempre più ampi di persone. Secondo questa prospettiva, anche la scienza è il risultato di un lungo processo di accumulazioni, scambi e relazioni tra attori e oggetti che vengono agiti. Per questa ragione è impossibile concepire la teoria come isolata dalle reti sociali che la costruiscono. Tale cambio di prospettiva riconosce che non è possibile erigere una barriera tra i saperi, né tra questi e il mondo che li circonda e che la teoria, in quanto processuale e assemblata da diversi soggetti, ha già di per sé il carattere di pratica. Concepire l’intelligenza come un processo collettivo permette di creare un’immagine del sapere come diffuso, delocalizzato e quindi più accessibile, creando così un tipo di conoscenza che possa essere in continua espansione e che sia una risorsa distribuibile e fruibile tra individui spazialmente distanti attraverso reti e connessioni.

Quindi il femminismo può diventare una bussola del pensiero, state dicendo questo? 

Sì. Oltre a fornirci una lente attraverso cui scoprire le dinamiche che non riusciamo a intravedere a occhio nudo, l’approccio femminista fornisce anche un metodo per orientare la nostra intelligenza collettiva, che è quello del partire da sé, dalle proprie esperienze come individui e come gruppi. Al contrario di altri metodi di ricerca, infatti, la prospettiva femminista sostiene che è possibile parlare di saperi e di oggettività solo parziali. Fare teoria a partire da queste premesse fornisce gli strumenti per articolare un nuovo tipo di sguardo sul mondo e significa generare uno spazio creativo radicale capace di trasformare la soggettività di chi fa ricerca e di chi la fruisce. Dal momento che il sapere è profondamente legato alle condizioni storiche, sociali e culturali in cui è prodotto, nonché impregnato dell’identità e del posizionamento di chi lo produce, ammettere che la prospettiva di chi fa ricerca è sempre parziale significa riconoscere il forte legame tra istanza teorica e critica politica. Non a caso, il metodo proposto dal femminismo non ha radici esclusivamente nella teoria, ma proviene anche dalla pratica ereditata dai movimenti femministi degli anni Settanta.

Cosa sentite di aver imparato dalle femministe degli anni Settanta? 

A non fossilizzarsi sul sapere come un dato di fatto: la decostruzione è una pratica quotidiana che richiede la costante messa in discussione di ciò che ci circonda, che ci è stato trasmesso come vero, appurato, giusto e normale. Perché se da un lato i sistemi di oppressione rendono invisibili porzioni di realtà, non riconoscendone la legittimità né l’esistenza, allo stesso tempo accecano con ciò che impongono come “normalità”, immobilizzando la società all’interno dello schema del "dato per scontato". Partendo per esempio dall’assunto che privilegio e sapere sono strettamente connessi, appartenere a una categoria elitaria si traduce in una maggiore possibilità di essere assertivi e di produrre corpi di conoscenza riconosciuti pubblicamente come tali. Al contrario, categorie e soggettività oppresse sperimentano un ampio spettro di esperienze cognitive negative, che ne ostacolano le possibilità non solo come agenti cognitivi singoli, ma anche a livello di organizzazione collettiva del sapere.

Cosa significa per voi produrre sapere?

Produrre sapere significa produrre e riprodurre dinamiche e sistemi di dominio poiché, così come la teoria, questo è cruciale nella distribuzione di potere, privilegi e svantaggi. Ma il sapere può rappresentare anche uno strumento di messa in discussione di quegli stessi assi di dominio. Partire da sé e posizionarsi vuol dire quindi considerare che esistono delle differenze che caratterizzano la nostra esperienza sociale e che è necessario fare luce sui propri privilegi (etnici, di classe, di orientamento, di genere e sesso) per scardinare la riproduzione delle dinamiche di potere. La sfida oggi è cogliere la complessità della realtà. Un sapere che sa posizionarsi in questa complessità ha un valore allo stesso tempo critico e trasformativo e, in quanto tale, può promuovere processi di cambiamento sociale.

Quindi la teoria può cambiare il mondo? Quali sono i vostri riferimenti?

Se fatta a partire da queste premesse, sì, la teoria può essere uno strumento molto efficace di costruzione di immaginari di liberazione e di trasformazione. Abbiamo letto Kimberlé Crenshaw, Carol Hanisch, ma anche Donna Haraway, Pierre Lévy e bell hooks. Sappiamo che una teoria che emerge dalla concretezza, dalla quotidianità, dalla corporeità e che rende possibile la trasformazione femminista proprio perché l’esperienza personale, e quindi la soggettività della ricercatrice, costituisce un terreno estremamente fertile per la produzione di sapere rivoluzionario e trasformativo. Come ci ha insegnato bell hooks, mentre ci adoperiamo nella gestione quotidiana della vita siamo coinvoltə in un processo di teorizzazione critica da cui possiamo trarre nuovi strumenti per continuare a generare trasformatività e a costruire alternative. È dunque possibile coltivare un potenziale "curativo" della teoria, dando vita a nuovi spazi di produzione di sapere collettivo, legittimando luoghi e modalità esclusi dal sapere elitario e mettendo in atto una decostruzione del sapere come qualcosa di dato per certo.

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