Settembre 2021, nei social network circolano le fotografie delle proteste di Extinction Rebellion nel distretto finanziario di Londra. Il movimento ecologista manifesta di fronte alla Bank of England per chiedere al governo britannico di porre fine a tutti i nuovi investimenti nei combustibili fossili e di affrontare la crisi climatica. Decine di persone vengono fermate dalla polizia. Molte portano con sé cartelli che recitano: “Arrested for caring”. A mostrare i cartelli ci sono anche molti uomini, giovani e meno giovani, tra loro spicca un distinto signore bianco di mezz’età in completo grigio e cravatta. In italiano questo slogan può essere tradotto con “Mi arrestano perché mi prendo cura”, o “Mi arrestano perché mi preoccupo”. Chi, in questa occasione, si preoccupa e si prende cura? A chi è rivolta la cura e perché le persone che la esercitano compiono un atto illegale? La protesta denuncia la “finanza fossile” che sovvenziona la crisi climatica e i governi che stanno a guardare mentre la temperatura del pianeta aumenta. La sollecitudine, la preoccupazione e l’azione collettiva sono una risposta alla precarietà della vita su un pianeta ridotto in rovina da relazioni socio-ecologiche organizzate intorno al paradigma dello sviluppo economico.
Le immagini di Londra evocano due elementi che qui ci interessa sottolineare. Primo, indicano uno slittamento verso una forma di cura multidimensionale che risponde a dinamiche e problemi politici di portata sociale ed ecologica. La cura coinvolge le persone, gli esseri viventi e le componenti biosferiche e atmosferiche da cui dipende la vita umana sul pianeta. Implica non solo e non tanto una visione intersoggettiva quanto una “responso-abilità” che coinvolge esseri umani e non umani in relazioni di interdipendenza. Secondo, mostrano che la circolazione e la distribuzione della cura sono un ambito di conflitto tra una varietà di attori che immaginano e praticano modelli di cura divergenti. Caring, in questo contesto, significa anche lottare, dedicare energie e tempo per trasformare relazioni di potere asimmetriche.
Possiamo leggere l’uso e la risignificazione del lessico della cura di Extinction Rebellion nel quadro di un’attenzione crescente a questo tema nell’accademia e nell’attivismo. Il movimento ecologista rinvia a un elemento che i saperi femministi hanno messo in luce da tempo: la cura è materia politica. Le immagini della protesta suggeriscono che la cura riguarda tuttə, che chiunque può (e dovrebbe) occuparsi di altre persone, del pianeta e delle generazioni che verranno. Per alcuni versi, sono un invito a disinvestire nella fantasia del soggetto autosufficiente, che vorrebbe bastare a sé stesso, ignorando la propria dipendenza da altri corpi, da altre forme viventi e non viventi, incluse le sostanze organiche e i processi chimici alla base dei combustibili fossili. Questa fantasia, tipica della modernità occidentale, è stata esasperata nei decenni del neoliberalismo che esalta le capacità di auto-espansione dell’individuo e fa della dipendenza una colpa, una fonte di umiliazione, una patologia da arginare.
Tuttavia, come sottolineano le prospettive femministe e anti-razziste, la cura è attraversata da disuguaglianze che ne determinano l’orga- nizzazione e la distribuzione. Sebbene la cura sia una questione di interdipendenza e relazione, è anche un insieme di attività disconosciuto e svalutato, tradizionalmente escluso dagli ambiti della politica e dell’economia, su cui ha prosperato il modello virilcapitalista che sfrutta manodopera poco o nulla remunerata, femminilizzata e razzializzata, e che trasforma corpi ed ecosistemi in risorse da appropriare. Per dirla con Pascale Molinier, la cura “è una zona nevralgica di conflitto, di tensioni, di tentennamenti, di ambivalenza”. Da questo punto di vista, il lessico della cura si presta a letture ambigue. Anche se la cura riguarda tuttə, alcuni soggetti dominanti della modernità, in particolare gli uomini bianchi, hanno goduto e continuano a godere del privilegio di delegarla ad altre. Così, se da una parte è necessario sottolinearne il ruolo, e ri-valorizzarla in chiave di alternativa al paradigma che pensa la costituzione del mondo in termini di produzione, d’altra parte è vitale formularne una visione non edulcorata. La cura, insomma, non è una pratica innocente, non è sinonimo di condivisione, di creazione di convivialità, ma comporta relazioni di potere con cui confrontarsi per modi carne il senso e trasformare le modalità del vivere comune.
Il libro Ecologie della cura che abbiamo curato (Orthotes, 2021) accoglie la proposta ecologista di fare della riconfigurazione delle relazioni socio-ecologiche un terreno di cura collettiva, ma assume come lente privilegiata quelle prospettive femministe che, non da oggi, hanno reso la cura un dispositivo critico, sensibile ai paradossi e alle ambivalenze. Anziché ridurre, ci interessa moltiplicare le ambiguità e interrogare il rischio di proporre visioni idealizzanti della cura che insistono sugli affetti positivi mettendo in secondo piano gli affetti negativi, il disagio, le disuguaglianze, le violenze ed esclusioni che attraversano le esperienze quotidiane di presa in carico della vita. Il volume restituisce questi elementi di dissonanza nell’attenzione alle tensioni tra diversi approcci femministi, alle sfide del femminismo nero e del femminismo decoloniale, alle prospettive trans, a quelle ecologiste e ai disability studies.
L’accento sulle ecologie nel titolo del libro rinvia ad assemblaggi di elementi eterogenei e non a unità organiche stabili e armoniose. In questo senso, i saggi nel volume coesistono per interrogare la cura e per interrogarsi l’uno con l’altro. Con Donna Haraway, pensiamo le ecologie come concatenamenti che coinvolgono viventi umani, non umani e tecnologie. Prestare attenzione alle ecologie della cura implica sfidare l’assunto secondo cui gli esseri umani esistono come individui separati, privi di un milieu più-che-umano che pone questioni e problemi dalla forza ineludibile. Al tempo stesso, significa fare i conti con configurazioni di potere che rendono i corpi ineguali e assegnano ad alcuni, piuttosto che ad altri, gli obblighi della cura. Significa, dunque, sforzarsi di tenere in vita e, insieme, porsi il problema di disfare le forme egemoniche della cura che producono esclusioni e privilegi.
Nel confronto con le molteplici dimensioni della cura, abbiamo tratto energia e concetti dai movimenti transfemministi, che in anni recenti, dall’Argentina all’Italia, hanno connesso la lotta alla violenza eteropatriarcale con quella alla violenza razzista, economica e ambientale, nello sforzo faticoso, dai risultati mai scontati, di aprire spazi di alleanza tra differenze. L’enfasi sulle prospettive transfemministe nel titolo, anche se non tutti i contributi sono riconducibili a questo orientamento, è un modo per riconoscerne la forza generativa, la capacità di pensare in maniera collettiva, dando vita a saperi e pratiche critiche e, al tempo stesso, prefigurative.
Estratto da Ecologie della cura, a cura di Maddalena Fragnito e Miriam Tola