Politiche di genere o genere nelle politiche. Di fronte a una parità che non avanza, Lorenza Perini e Gilda Storti provano a cambiare punto di vista, a partire dal governo delle città
Da dove ripartire se
la parità non avanza
Rompere il frame: da politiche di genere al genere nelle politiche
Conoscere i numeri e i nomi delle donne elette nelle amministrazioni locali è un punto di partenza fondamentale per qualsiasi analisi politica in questo campo. Registrare a quale livello dell’amministrazione locale sono posizionate, se la giunta di cui fanno parte è paritaria, se nei comuni esistono e sono attivi gli assessorati alle pari opportunità e/o le deleghe relative e come e quanto queste deleghe siano accorpate ad altre: si tratta di domande di ricerca - e di conseguenza di indicatori - molto interessanti, che forniscono un’utile “cartografia della parità” nelle realtà urbane. Si tratta però di una fotografia di superficie, che non esaurisce l’analisi sulla dimensione di genere delle politiche, tenendo presente per altro che “di genere” dovrebbero essere per definizione tutte le politiche di un’amministrazione locale in quanto tutte, senza esclusioni, ricadono sui corpi uguali e diversi di cittadine e cittadini. Per entrare in questo tipo di ragionamento però bisogna necessariamente rompere la duplice cornice “numeri delle donne in politica/politiche di genere” ed entrare nel profondo, nella tridimensionalità dei contesti, andare oltre la mappa e capire se realmente, in tutte le fasi del policy making – che si configura come atto di pubblico interesse -, viene messa a sistema la conoscenza del contesto in cui quella politica si inserisce e va ad incidere; se viene messo a sistema il capire come essa verrà recepita dagli uomini e dalle donne che abitano la città, che effetti avrà sulle loro vite, diverse le une dalle altre, diverse per età, per provenienza, per lavoro, per bisogni e desideri, e tutte queste caratteristiche attraversate dalla “diversità” dei sessi – se tutta questa dimensione di vita e di corpi si trasforma, in buona sostanza, indicatore di qualità di una politica.
Ciò significa spostare il focus dalle “politiche di pari opportunità” o “di genere” (elenco di argomenti di lunghezza variabile di cui si dovrebbero occupare prevalentemente le donne per le donne nell’immaginario collettivo) al “genere nelle politiche” – spazio assai più complesso, che da un lato coinvolge tutti i cittadini togliendo dalle spalle delle donne il pericoloso fardello della responsabilità del cambiamento (più donne in politica cambiano per forza le politiche e la politica), mentre dall’altro consente di applicare il “metodo” della parità fin dall’inizio del processo e non pensare alle questioni di genere come ad un “e” che si mette alla fine, a politiche fatte.
Esempi di municipalità che hanno saputo lavorare in questo senso non ce ne sono molte. Vienna è il caso più noto internazionalmente: la prospettiva di gender mainstreaming ha informato tutto il processo di costruzione delle politiche urbane (e urbanistiche nel caso specifico) della città fin dagli anni '90, riuscendo così a cambiare nel tempo la mentalità con cui si progettano le politiche. In Italia, per vari motivi non c’è stato ancora un tempo così lungo per ragionare concretamente, attraverso prove successive, sulla “parità come metodo”. Eppure tutte le premesse di conoscenza, di saperi, di strumenti e di infrastrutture istituzionali e normative ci sono.
La situazione nei capoluoghi di provincia e di regione in Italia
La nostra analisi inizia cercando di rispondere alla domanda: è possibile evidenziare una corrispondenza – anche soltanto empirica- tra “più donne in politica” e “più genere nelle politiche”? Fatima Farina parla di “latenza culturale che sussume la diseguaglianza”, come a dire che è la nostra cultura che ha “un problema” e se questa condizione non cambia, poco importa aumentare i numeri. Se non cambia cioè il contratto sociale di matrice tutta maschile, continua Farina citando Carole Pateman, la presenza delle donne nelle istituzioni non potrà che limitarsi a “rifare” loro il look, ad essere una sorta di presidio capace di ristabilire la parità senza far sì che il sistema metabolizzi il cambiamento. E questo perché, come scrive Laura Balbo, “appare chiaro che fino ad ora si è riusciti scientemente a fare in modo che in politica non entrassero troppe donne”. Detto questo, mappare la situazione in un dato territorio sembra ancora in Italia una chiave di lettura necessaria per comprendere quante e quali politiche con un’etichetta di genere vengono attivate nelle municipalità e da chi. Il nostro campione iniziale è dunque rappresentato dai 118 capoluoghi di provincia italiani e all’interno di esso evidenziamo
- i comuni amministrati da donne;
- i comuni con giunte paritarie;
- la presenza di assessorati e/o commissioni pari opportunità – come sono denominate, chi le regge, con quante altre deleghe sono accorpate.
Rispetto a questo punto, stando ai dati dell’ultima tornata elettorale, 11 su 118 sono i capoluoghi di provincia amministrati da donne e di questi uno (Roma) presenta fino ad oggi una giunta 50-50 (dato di ottobre 2016). Una giunta paritaria è presente inoltre in altri 14 capoluoghi con sindaco un uomo (di cui uno nel frattempo commissariato: Padova). I comuni invece con sindaco donna e giunta a maggioranza femminile sono tre (Torino, Carbonia e Verbania).
Rispetto alla presenza di assessorati e/o deleghe specifiche di pari opportunità, le amministrazioni locali, nella maggior parte dei casi, tendono ad affidare alle donne la delega. Solo in 9 casi si riscontra un affidamento a un assessore uomo, in 5 la delega è stata ceduta dal sindaco o sindaca ad una consigliera (in due casi un uomo). In altri cinque casi il sindaco ha avvocato a sé la delega (in due casi il sindaco in questione è una donna). Vi sono poi capoluoghi in cui un assessore/a alle pari opportunità non è stato nominato e sono 17, di cui due con sindaco donna. In altri 17 non è presente in organigramma un assessorato in materia, per quanto esista poi una delega specifica. In 6 casi manca invece anche la delega[1].
Rispetto all’accorpamento delle deleghe, si tratta di un fenomeno ampiamente diffuso che denota certamente un nodo cui prestare attenzione, ma non si tratta di un male in sé. Seguendo la prospettiva inclusiva del mainstreaming e volendo scardinare l’isolamento (e a volte lo svilimento) in cui si trova a volte chi si occupa di parità, l’accorpamento di più responsabilità può essere una decisione positiva, soprattutto se c’è coerenza tra le funzioni che si assommano e se la prospettiva di genere riesce ad informare di sé la gestione di tutte le altre. Un’assessora o assessore che si occupa di parità ma anche di edilizia pubblica, trasporti, accoglienza immigrati, integrazione e partecipazione può certamente organizzare il suo agire intorno ad una prospettiva di genere che accomuni questi ambiti.
Più virtuosi, almeno sulla carta, quei comuni che riescono a unire pari opportunità e bilancio di genere, tempi della città, edilizia pubblica, trasporti, ma si contano sulle di dita di una mano. L’abbinamento con le politiche scolastiche, del volontariato, della pace, sanitarie e della famiglia - il sociale, in sostanza - è tra i più diffusi, quasi scontato, e anche qui non si tratta di un aspetto negativo se è la prospettiva di genere a guidare l’azione di tutte le altre. Sorprendente per certi versi, ma spiegabile e diffuso sia a Nord che Sud, l’accorpamento della delega di pari opportunità con la gestione della polizia municipale e con la sicurezza cittadina, secondo una visione che traduce univocamente “pari opportunità” con “donne” e “donne” con “gruppo vulnerabile”. Più articolato, ma altrettanto logico secondo la medesima linea di pensiero, è l’accostamento di parità di opportunità con disabilità, con le politiche giovanili, sport e attività di cura degli anziani: fa parte del concetto per cui le politiche di parità sono politiche che da un lato riguardano l’”aiuto” a fasce di popolazione più debole e dall’altro riguardano la conciliazione, appannaggio ovviamente solo delle donne e non vista come questione a carico di tutta la comunità. Decisamente poco spiegabili, se non con il “ciò che resta dopo aver distribuito tutto il resto” gli apparentamenti con la tutela e diritti degli animali, servizi veterinari, servizi cimiteriali, servizi di “giardineria”, rifiuti, inventari e infine T.S.O., riscontrabili in comuni sia grandi che piccoli, a Nord come al Sud, senza particolare distinzione nemmeno di colore politico.
Al di là della varietà degli accorpamenti, il problema principale resta comunque la quantità di deleghe in capo ad una sola persona per cui in alcuni casi si arriva a 15, 16 deleghe, senza considerare che magari si tratta di comuni con centinaia di migliaia di abitanti. Se tutto ciò sia dovuto allo scarso radicamento della parità come “valore” alto da perseguire, non è facile da dire, certamente i dati portano a questa constatazione.
Se concentriamo l’analisi su un gruppo più ristretto di municipalità, vale a dire sui capoluoghi di regione (scendendo in questo modo da 118 a 20 comuni) la questione degli accorpamenti si fa più chiara, anche perché non si tratta né di piccoli né di medi comuni dove l’accumulo di deleghe è spiegabile in parte con il numero esiguo di assessori: tra le città considerate, 15 su 20 sono al di sopra dei 100 mila abitanti e 4 sopra il milione. A parte il caso al momento non risolto di Roma, tutti i comuni considerati presentano deleghe alle pari opportunità accorpate a svariate altre apparentemente senza una logica e il fatto che il sindaco sia un uomo o una donna sembra ininfluente rispetto all’esistenza di un assessorato dedicato, così come appare non influente il colore politico della giunta. Anzi negli 11 casi considerati di comuni con sindaco donna troviamo sia assenza di assessorato dedicato che assenza di delega, oppure presenza di delega accorpata con il maggior numero di altri incarichi (22) oppure ancora casi di assessorato affidato a un uomo assieme ad altre innumerevoli deleghe. Tutte le combinazioni possibili sono presenti dunque, senza particolare prevalenza di una casistica sull’altra. Dal quadro delineato l’unico disegno che si intravvede è un generale svilimento, una non considerazione in nome di nessun altro tornaconto apparente. Senza indagarne in questa sede l’intenzionalità, tale situazione ha almeno una spiegazione.
Appare chiaro che dal punto di vista della nostra ricerca, intendere “pari opportunità” come una questione relativa a un solo sesso da rendere “pari all’altro” è decisamente fuorviante. Il rischio – come già sottolineato - è di etichettare in modo errato (“solo per le donne”) politiche e pratiche del vivere quotidiano che invece, insistendo nello spazio vitale della città e nella sua quotidianità, riguardano tutti, uomini e donne che vivono e abitano.
Per lo stesso motivo, cioè l’errata etichettatura, è possibile che politiche naturalmente aperte alla prospettiva di genere siano considerate fuori dalle competenze degli assessorati e delle deleghe preposti e quindi non le si trovi andando a scorrere la lista delle “politiche di pari opportunità”. Per spiegare meglio: ad avere una città più sicura che contempli maggiore illuminazione nei parcheggi e per le strade non beneficiano solo le donne, quindi perché non possono essere questi dei criteri di base dell’urbanistica invece che una politica etichettata come “rosa” e finanziata come “rosa”? Allo stesso modo non è solo un bene per le donne che sul territorio esistano efficienti centri anti violenza che diffondono una cultura del rispetto. Perché il potenziamento di questi presidi così come dei consultori, sono visti come politiche per le donne e basta e finanziati solo da canali di “pari opportunità”? Non gioverebbe a tutti in termini di quaità della vita far slittare questa materia tra le competenze “di base” di un’amministrazione pubblica? E ancora: non è solo a favore delle donne il fatto che esistano asili nido raggiungibili, scuole organizzate per il tempo prolungato, trasporti efficienti e via dicendo. È un fatto positivo per i bambini, per gli anziani, per tutti. Il “bene” di questo tipo di interventi è evidentemente “di genere” perché a favore di tutta la comunità, e invece vengono etichettate come politiche “al femminile”, ambito ristretto di azione sottolineato magari ancor dall’aggettivo “rosa” – parcheggi rosa, marciapiedi rosa taxi rosa- e per questo ancora più svilite. Questo è il punto. Nel momento in cui potessero slittare di categoria e non essere più sottoposte all’etichetta stereotipata di “politiche per le donne” tutti questi interventi sarebbero finalmente visti per ciò che sono e cioè politiche per il riequilibrio che, nel dare un aiuto a una parte della popolazione, contribuiscono al benessere di tutti.
Si diceva: più donne in politica corrisponde a più genere nelle politiche? L’ipotesi sembra smentita categoricamente. Il problema italiano sembra molto più culturale che politico, radicato nel Dna del nostro modo di intendere ruoli e stereotipi di genere, e coinvolge sia uomini che donne. Se rovesciamo la prospettiva che vede la delega alle pari opportunità e/o il rispettivo assessorato come unico ad assolvere il compito di portare avanti le istanze di parità e applichiamo invece veramente la prospettiva mainstreaming, è possibile, se non far emergere, almeno segnalare in ogni contesto della vita politica e sociale le differenze e le complementarità dei punti di vista degli uomini e delle donne, in modo tale che si instaurino modalità inedite di lettura dei problemi, di inquadramento degli obiettivi e di individuazione delle soluzioni. Ciò non garantisce che le soluzioni siano più immediate né migliori. È però un’ipotesi, quindi perché privarsene? Ascoltare anche la voce delle donne segnalerà le stesse problematiche che segnalano gli uomini? Forse sì. Ma forse no.
Note
[1] I dati sono consultabili sul sito del Cirsg
Riferimenti bibliografici
Balbo L., Riflessioni in-attuali di una ex ministro. Pensare la politica anche sociologicamente, Rubbettino, 2002
Kail E., Irschik E., Strategies for Action in Neighbourhood Mobility Design in Vienna - Gender Mainstreaming Pilot District Mariahilf, “German Journal of Urban Studies”, Vol. 46, No. 2, 2007
Sebastiani, C., "I governi locali funzionamento e politiche territoriali di genere", in Del Re A, Longo V., Perini L., I confini della cittadinanza. Genere, partecipazione politica e vita quotidiana, FrancoAngeli, 2011, pp. 88-98
Sanchez de Madariaga, Fair shared cities the impact of gender planning in Europe, Ashgate, 2013
Farina F., Carbone D., Oltre le quote. Sguardi plurimi delle elette, Maggioli Editore, 2016
Leggi tutto il dossier di inGenere Lo stato delle pari opportunità