SPECIALE EUROPA. A poche settimane dalle elezioni europee, e dopo i fatti di Verona, inGenere dedica uno speciale ai diritti delle donne in Europa. Iniziamo dall'Ungheria, dove il governo non ha nessuna intenzione di recepire la Convenzione di Istanbul, ha eliminato gli studi di genere dalle università e non perde occasione per far riferimento al mito della 'buona madre'

Il mito della 'buona madre'
nell'Ungheria di oggi

di Anita Pelle

L’Eurostat ha pubblicato di recente una scheda informativa sulla presenza femminile nei parlamenti e nei governi degli stati membri dell’Unione europea. L’Ungheria rappresenta il fanalino di coda: le donne occupano il 13% dei seggi parlamentari e il 7% delle posizioni in seno al governo (la media europea si colloca al 30% per entrambi i gruppi). Ciò rappresenta tuttavia solo la punta dell’iceberg.

Uno dei principali fattori di preoccupazione è che, nonostante la strenua lotta portata avanti per molti anni da diversi enti, organizzazioni e perfino partiti politici, il governo non ha intenzione di ratificare la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Il problema maggiore in Ungheria è costituito dai reati perpetrati all’interno del contesto familiare: la legislazione ungherese, infatti, ad oggi ancora non assicura un’adeguata protezione alle vittime – che di solito sono donne e bambini; piuttosto difende o, almeno, non punisce chi commette tali reati – solitamente gli uomini.

A quanto emerge dalle statistiche, nel 2011 il 50% dei reati commessi all’interno del contesto familiare in Ungheria è stato perpetrato da partner (il restante 50% risulta distribuito tra le seguenti tipologie di rapporti: padre/madre o nonno/a e nipote; nipote e padre/madre o nonno/a; altri rapporti familiari e altri tipi di rapporti, ad esempio quelli riguardanti coloro cui è affidata la tutela di minori o incapaci).[1] 

Il tasso complessivo di donne vittime di crimini commessi all’interno della famiglia è pari al 70% ma, in alcuni casi, le percentuali sono assai più consistenti: nell'89% dei casi le donne subiscono aggressioni a livello fisico, nel 92,3% coercizione, nel 98% violazione della libertà personale, nel 93,3% molestie, nel 92,9% ferocia, nel 90,9% calunnia (con impatti a livello fisico) e nell'87,1% atti di violenza sulle cose. Infine, in non meno del 100% dei casi che coinvolgono una persona minore d’età, le donne sono state vittime di violenza sessuale o sono state costrette con la forza ad avere un rapporto sessuale.

Di tanto in tanto i media ci narrano delle vere e proprie storie dell’orrore: è recente la notizia di un padre che ha tenuto la propria figlia in condizioni di schiavitù, sottoponendola a violenza sessuale per 10 anni. Quando la figlia era ancora adolescente, ha dato alla luce due creature, la più giovane delle quali è stata lasciata morire al fine di nascondere la relazione. L’aspetto più triste di tutta questa vicenda è che nel villaggio si sapeva cosa stava accadendo ma non è stato fatto nulla.[2]

Tuttavia, non è necessario addentrarsi nelle pieghe più oscure della natura umana per rilevare incongruenze nel modo in cui le donne e le questioni di genere sono trattate a livello politico e sociale in Ungheria. La scorsa estate il governo – tramite apposito decreto – ha eliminato gli studi di genere dal sistema di istruzione universitaria ungherese, liquidandoli come dannosi e inutili. L’ultimo progetto di riforma avanzato dal governo – chiamato Piano per la protezione della famiglia  con il fine di promuovere la fertilità, e quindi migliorare gli alquanto negativi trend demografici nel paese, umilia ancora di più le donne relegandole alla loro funzione di “partorienti” e “protettrici della famiglia”, e ignora completamente i padri, altro aspetto importante della disuguaglianza di genere.

Di recente è stato pubblicato un articolo di critica riguardante una brochure presentata in occasione dell'8 marzo che forse può aiutare a comprendere meglio lo scarso riconoscimento che le donne si vedono attribuire nella sfera pubblica. Nella brochure, un gran numero di esponenti, uomini, del mondo politico conservatore – inclusi molti ministri e segretari di stato, nonché i sindaci di varie città, tra cui Budapest  ha espresso apprezzamento per quelle donne che riconoscono che l’obiettivo da perseguire nella propria vita sia diventare mogli e madri e mettersi al servizio della società.

Nel dibattito pubblico ungherese esiste il mito della “buona madre”, e viene condiviso da gran parte della popolazione, sia uomini che donne. Secondo tale mito, la donna, che ci si auspica diventi madre, mostra un atteggiamento di sacrificio personale, altruismo, dedizione completa ed entusiasmo infinito verso il suo ruolo e verso tutto il lavoro – non retribuito – che esso comporta, nonché una gioia infinita rispetto al fatto di restare a casa a prendersi cura della famiglia  implicitamente, senza interrelazioni con il mondo esterno, perlomeno non a livello individuale, ma solo in qualità di moglie e madre. Tale approccio, da parte di esponenti di primo piano del mondo della politica, non contribuisce certo a migliorare la situazione, sortisce piuttosto l’effetto contrario.

Il problema è fortemente radicato nella società ungherese. Le storie che bambini e bambine ancora leggono e i topoi fortemente presenti a livello culturale, linguistico e di dibattito pubblico reiterano e confermano i vecchi stereotipi: il successo e l’assertività sono prerogative degli uomini, mentre alle donne spettano l’autoumiliazione, i carichi di cura e il compito di mettersi al servizio del prossimo. Inoltre, la matematica e le tecnologie sono principalmente appannaggio degli uomini, mentre il personale negli asili e il personale infermieristico negli ospedali 'dovrebbe essere composto' per la maggior parte da donne. A questo riguardo, le idee del mondo della politica, di cui si è dato conto sopra, riflettono 'semplicemente' il pensiero dominante della società ungherese. È triste ma è così.

Note

[1] I dati più recenti che è stato possibile reperire risalgono al 2011; tuttavia, il quadro non ha subito cambiamenti sostanziali negli ultimi anni (e sicuramente non in meglio).

[2] Anche la madre, in quanto ritenuta complice, è stata condannata per concorso nel reato di omicidio.

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