SPECIALE EUROPA. Il governo di Viktor Orbán, in Ungheria, ha deciso di eliminare gli studi di genere dalle università. Anikó Gregor, responsabile di uno di questi corsi all'Università Eötvös Loránd di Budapest, fornisce una chiave di lettura per comprendere cosa sta succedendo nel paese

Cosa è successo agli
studi di genere in Ungheria

di Agnes Gagyi

Ho intervistato Anikó Gregor, docente responsabile del corso di laurea magistrale in Studi di genere all’Università Eötvös Loránd (Elte) di Budapest.[1] Il corso è stato soppresso dal governo ungherese a novembre 2018 nel quadro della politica di eliminazione degli studi di genere dai curricula universitari. Anikó Gregor colloca tale mossa all’interno della strategia del partito di governo, Fidesz, volta a sottolineare i fallimenti della democrazia liberale e la necessità di riposizionare il paese – dal punto di vista economico – al di fuori dell’Unione europea e di privatizzare l’istruzione superiore. L'analisi di Gregor fornisce una chiave di lettura per comprendere il nesso con le manifestazioni di protesta contro la cosiddetta “legge schiavitù” (che prevede l’introduzione di 400 ore annue di straordinario per lavoratrici e lavoratori, ndr).

Secondo quanto riportato dalle fonti d’informazione internazionali, i problemi che attualmente attanagliano il sistema di istruzione superiore ungherese riguardano due aspetti principali: il trasferimento a Vienna della sede dell’Università dell’Europa centrale (Ceu) e il divieto di organizzare corsi di laurea in Studi di genere. Può spiegarci la situazione dal suo punto di vista? Quali nessi ci sono con i processi in corso di portata più ampia?

Per comprendere le azioni del governo Orbán è necessario tenere presenti due cose. Prima di tutto, dobbiamo considerare la posizione dell’Ungheria: si tratta di uno stato semiperiferico con un’economia neoliberista, che risulta essere fortemente dipendente dagli investimenti stranieri e dal sostegno dell’Ue. In secondo luogo, non dobbiamo dimenticare che l’Ungheria rappresenta ora un esempio emblematico di stato “in catene”. L’élite politica si è trasformata nella classe economicamente dominante, mentre continua ancora a mascherarsi da partito politico. Nonostante l’Ungheria si sia più e più volte definita uno “stato illiberale” – un messaggio, questo, molto forte a livello politico e culturale –, a livello economico sono state adottate, giorno dopo giorno, una serie di misure neoliberiste estremamente forti. In questo contesto, le mire di Orbán sono facilmente intuibili. Fino a poco tempo fa, i fondi per lo sviluppo provenienti dalle istituzioni europee hanno sostenuto la crescita economica e hanno contribuito alla conquista di una clientela locale fidelizzata. I finanziamenti europei hanno portato a un aumento del tenore di vita della popolazione ungherese più abbiente, ovvero la classe media e i ceti più elevati. Negli ultimi due anni, il tenore di vita medio è aumentato. Al contempo, però, è aumentata anche la disuguaglianza sociale, a tal punto che oggi, a livello Ue, l’Ungheria è il paese con il più basso grado di mobilità sociale.

Sfortunatamente, i fondi europei destinati all’Ungheria, la cui erogazione era inizialmente prevista fino al 2020, sono stati spesi e sono quindi giunti a esaurimento molto prima. Tuttavia, il mantenimento dello status quo e la legittimazione delle misure antidemocratiche richiedono risorse. Pertanto, dal momento che i fondi europei devono essere sostituiti con i prestiti di Russia e Cina come fonti di investimento, per Orbán e il suo governo si rende necessario modificare la retorica. Nei decenni che seguirono alla transizione politica post-comunista, l’obiettivo – una vera e propria missione impossibile – di allinearsi con l' "Occidente" (liberale, economicamente prospero, “super progressista e democratico”) ha influenzato e plasmato i valori culturali ed economici. L’integrazione europea era parte di questo progetto. Stiamo ora assistendo alla negazione, o almeno alla messa in discussione, di questi valori. [...] Quattro anni fa, il governo ha introdotto una nuova figura all’interno del sistema universitario, incaricata del controllo finanziario dei singoli istituti universitari. Tre anni fa, diversi corsi di studi afferenti all’ambito delle scienze sociali, delle arti e delle scienze umane – come ad esempio il corso di laurea triennale in Studi sociali e il corso di laurea magistrale in Andragogia – sono stati eliminati in quanto, così è stato dichiarato, non sarebbero spendibili e remunerativi sul mercato del lavoro. Molti altri curricula universitari, come ad esempio gli studi internazionali, sono stati risparmiati per via della loro popolarità. Tuttavia, i fondi pubblici destinati a questi corsi di studi sono stati praticamente ridotti a zero. Le università che una volta erano pubbliche stanno ora subendo un processo di trasformazione che le porterà a essere degli istituti privati per accedere ai quali si renderà necessario il pagamento di una retta. Ciò porterà al blocco della mobilità sociale. [...]

Qual è nel dettaglio la situazione in cui versa attualmente l'università per cui lavora? Quali sono gli aspetti che destano maggiore preoccupazione? Come vengono affrontati i cambiamenti in corso da parte dei docenti e della comunità studentesca?

Il 14 novembre è stata organizzata una “giornata informativa e di sciopero di solidarietà presso la facoltà di Scienze sociali dell’Elte, la sola università nel paese a offrire un corso di laurea magistrale in Studi di genere in lingua ungherese prima che il governo eliminasse questa specializzazione. Il corso aveva ricevuto l’accreditamento ufficiale due anni e mezzo fa senza problemi; tuttavia, aveva preso avvio solo lo scorso anno sotto il fuoco di una serie di campagne denigratorie sostenute dal governo. Dal momento che la messa al bando dei corsi di laurea in Studi di genere presso le università Elte e Ceu ne costituiva la ragione principale, l'evento era incentrato soprattutto sui diritti delle donne e sulle disuguaglianze sociali tra uomini e donne. [...] Tre studenti, che poi si è scoperto erano iscritti alla facoltà di Chimica, si sono fermati, hanno preso i volantini, li hanno letti e hanno subito posto la seguente domanda: “Il problema è che siamo uomini bianchi, di fede cristiana, di nazionalità ungherese e di orientamento eterosessuale?” La loro conoscenza del genere si fermava alle “etichette” radicate nella cultura della vittimizzazione. Abbiamo iniziato a parlare e nel giro di un quarto d’ora abbiamo acquisito consapevolezza delle radici comuni dei problemi che li riguardavano e che venivano affrontati come tali in alcune lezioni del corso di laurea magistrale in Studi di genere. Abbiamo convenuto sul fatto che un sistema di istruzione superiore senza il sostegno pubblico porta con sé una lunga serie di conseguenze negative, tra cui: un’istruzione di qualità scadente, borse di studio di basso valore, la mancanza di posti letto negli studentati, la carenza di sostanze chimiche per l’effettuazione di esperimenti nei laboratori (non è una battuta: il personale docente spiega a voce agli studenti e alle studentesse della facoltà di Biologia dell’Elte quali esperimenti si potrebbero condurre se fossero disponibili le sostanze necessarie), un sovraffollamento dei laboratori, che arriverebbero a ospitare fino a 16 tra studenti e studentesse; e il mancato aumento, da 10 anni a questa parte, dell’importo dell’assegno per l’infanzia e dell’assegno familiare nonostante un tasso di inflazione del 33%, che comporta seri problemi per le donne. Non penso che i tre studenti della facoltà di Chimica siano diventati convinti sostenitori degli studi di genere ma almeno hanno compreso che anche i loro problemi vengono presi in debita considerazione. Non ci interessava entrare in competizione con loro in riferimento a chi subisse le maggiori vessazioni, non li abbiamo rimproverati per non essere tolleranti abbastanza, ma abbiamo cercato di mostrare loro il nesso esistente tra la loro situazione e quella di molte donne. Pertanto, ciò che manca veramente è la valorizzazione dei punti in comune tra le problematiche diverse e apparentemente diffuse che le persone si trovano ad affrontare ai vari livelli e nei diversi ambiti dell’istruzione superiore. Inoltre, queste problematiche emergono anche nel settore della pubblica istruzione, della sanità e dell’assistenza sociale, e ora anche in riferimento alla cosiddetta “legge schiavitù”. 

In che modo la comunità accademica e studentesca dell'ateneo si relaziona con le rivendicazioni portate avanti in altre università? Si è cercato in qualche modo di fare fronte comune? Quali passi in avanti sono stati compiuti e quali sfide restano ancora da affrontare?

Fino a poco tempo fa, la maggior parte delle proteste si è focalizzata sui termini che fanno parte della catena associativa relativa ai diritti democratici: autonomia dell’istruzione superiore, libertà d’istruzione, ecc. Tuttavia, a seguito della nuova ondata di riforme, parte della comunità studentesca ha messo in luce la problematicità delle questioni relative alla mobilità sociale e ha messo in discussione le proposte del governo che paragonano le università a delle fabbriche aventi come scopo la produzione di studenti e studentesse con conoscenze e competenze che siano spendibili sul mercato del lavoro. La parte della comunità studentesca che si oppone a una tale politica afferma che “le università non sono fabbriche”. Ciò è sicuramente vero, tuttavia, si può facilmente vedere come tale affermazione non colga l’essenza delle problematiche riguardanti le attuali condizioni di lavoro nelle fabbriche; essa semplicemente respinge l’idea che tali condizioni possano essere accettate anche nel mondo universitario. Fortunatamente, più di recente, la comunità studentesca ha iniziato a colmare gradualmente la distanza e a superare la gerarchizzazione tra università e fabbrica. La comunità studentesca e la classe lavoratrice sembrano ora avvicinarsi l’una all’altra. Lascia certamente ben sperare il fatto che un’organizzazione studentesca formatasi di recente abbia deciso di chiamarsi “Sindacato studentesco”, in opposizione al già esistente “autogoverno studentesco. Il suo approccio critico nei confronti del sistema si concentra sui problemi strutturali non solo del sistema d’istruzione superiore ungherese. Chi ha preso parte alle manifestazioni ha espresso solidarietà alla classe lavoratrice, vessata di recente dalla cosiddetta “legge schiavitù”, e ha sfilato con gli striscioni in mano nei cortei di protesta organizzati a Budapest. Queste nuove e inusuali alleanze evidenziano le radici comuni di problemi apparentemente differenti.

In tempi turbolenti, i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici vengono spesso messi da parte e prende il sopravvento la logica dell’emergenza. Com’è la situazione all'università? Avete uno o più sindacati? Se sì, come si pone (o si pongono) di fronte alle attuali contingenze? Gli altri sindacati hanno preso parte alle manifestazioni di protesta contro l’introduzione delle 400 ore annue di straordinario?

La definirei piuttosto “logica delle risorse”. Detta in parole semplici: solo le questioni che risultano essere in larga misura di interesse per certi gruppi sociali (dotati di sufficienti risorse sociali, economiche, ecc.) verranno alla luce. Non è questo il caso dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. In Ungheria, solo il 9% del totale dei lavoratori e delle lavoratrici con contratto di lavoro subordinato è iscritto a un sindacato. Il tasso di sindacalizzazione è calato costantemente durante la transizione economica degli anni novanta. L’introduzione della cosiddetta “legge schiavitù” a dicembre 2018 rende assolutamente necessario organizzare uno sciopero generale. Ma i sindacati sono deboli e alcuni di essi mostrano apertamente la loro fedeltà al governo in carica, dal quale ricevono sostegno economico. Alcuni sindacati sono più vicini al governo rispetto ad altri, si veda il concetto di “stato poliporo”. Dal momento che il governo rappresenta gli interessi delle aziende, siano esse ungheresi o estere, la situazione sembra essere senza vie d’uscita. I problemi di portata generale – tra cui la distruzione dello stato sociale, l’individualizzazione dei rischi sociali, l’approvazione della cosiddetta “legge schiavitù”, il finanziamento insufficiente della sanità e dell’assistenza sociale, il taglio delle risorse destinate all’istruzione pubblica e superiore, il trattamento di favore riservato, a livello di politiche, alle famiglie di ceto medio-alto e alto, ecc. – dimostrano come la frammentazione sia pretestuosa. Attualmente, se considerati separatamente, questi problemi non fanno altro che mettere i soggetti interessati in competizione fra di loro per la conquista di risorse sempre più scarse. Dovrebbero essere riconosciuti i problemi di ciascuna parte coinvolta, e le politiche sociali redistributive dovrebbero essere potenziate e considerate come prioritarie. Naturalmente, uno stato “in catene” che dipende dalle risorse provenienti dall’estero per il mantenimento dello status quo non può assolvere questo ruolo.

Sono state presentate molte petizioni, da più parti si è fatto appello alla solidarietà internazionale e, in alcuni casi, i media hanno dedicato molta attenzione a quanto sta accadendo nelle università ungheresi. In che misura ritieni che tutto questo sia efficace? C’è qualcosa in particolare che le piacerebbe la comunità internazionale facesse in segno di solidarietà con le vostre rivendicazioni?

Le istituzioni, da un lato, e l’accesso alle risorse necessarie, dall’altro, rappresentano delle componenti importanti della solidarietà a favore di chi ha bisogno di sostegno. Le domande che a questo punto si pongono sono: possiamo ampliare la definizione di chi ha bisogno di sostegno? Chi si trova nella nostra stessa situazione? Non dovremmo mobilitarci solo quando è la nostra casa a essere in fiamme. Che ne è del prossimo?

Note

[1] Anikó Gregor era la responsabile del corso di laurea magistrale in Studi di genere presso l’Università Elte (Budapest). Ha conseguito il dottorato di ricerca in Sociologia nel 2015 presso la stessa università e la laurea magistrale in Studi di genere nel 2011 presso la CEU. Attualmente lavora come assistente universitaria presso la facoltà di Scienze sociali dell’Elte, dove insegna Metodologie di ricerca quantitativa e qualitativa. La sua attività di ricerca si concentra principalmente sulle relazioni tra il neoliberismo, il femminismo e il sistema delle disuguaglianze di genere, in particolar modo nell’Europa centrorientale. 

L'intervista originale è stata pubblicata sul portale di LeftEast

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