Reddito, casa e lavoro: sono questi i requisiti minimi per una politica pubblica contro la violenza. Ma i soldi che l'Italia spende per sostenere le donne che intraprendono percorsi di autonomia sono ancora troppo pochi

La violenza si combatte
con l'economia

di Isabella Orfano, Rossella Silvestre

Tra il 2015 e il 2022 l’Italia ha speso complessivamente 157 milioni di euro contro la violenza: circa 20 per misure di sostegno al reddito, 124 per interventi di reinserimento e inserimento lavorativo delle donne fuoriuscite da situazioni di violenza, 12 per l’autonomia abitativa. Cifre decisamente insufficienti, corrispondenti a circa 54 euro al mese per donna presa in carico non economicamente autonoma.

È quanto emerge da Diritti in bilico. Reddito, casa e lavoro per l’indipendenza delle donne in fuoriuscita dalla violenza, lo studio che abbiamo curato per ActionAid Italia. E invece disporre di un reddito sufficiente, di un alloggio sicuro, di un lavoro dignitoso e di servizi pubblici ben funzionanti sono i presupposti essenziali per consentire alle donne non solo di abbandonare situazioni di violenza, ma anche di accelerare il loro processo di empowerment, diventare economicamente autonome ed esercitare il pieno controllo sulle proprie vite. Per questo devono essere gli elementi costitutivi di una politica pubblica per supportare le donne nel loro percorso verso l’indipendenza economica.

Si tratta sostanzialmente di garantire quei diritti economici e sociali tutelati da numerose leggi internazionali – inclusa la Convenzione di Istanbul – e dalla stessa costituzione italiana. Ancora lontana, però, è la realtà quotidiana delle donne rispetto alle previsioni normative. Vediamo, più nel dettaglio, a cosa ci ha portato la nostra ricerca.

La casa che non c’è

Le donne in fuoriuscita dalla violenza hanno una probabilità quattro volte superiore alle donne in generale di vivere situazioni di disagio abitativo. A causa dell’instabilità economica, molte hanno difficoltà a pagare l’affitto o le rate del mutuo, sono più esposte a sfratti o costrette a continui traslochi o a co-abitare in alloggi sovraffollati. A loro le istituzioni italiane non garantiscono una soluzione abitativa sicura ed economicamente sostenibile nel tempo. Al di fuori del finanziamento delle case rifugio che rispondono a un bisogno alloggiativo di breve periodo, dal 2015 ad oggi, l’Italia ha investito solo 12 milioni di euro per promuovere l’autonomia abitativa con interventi frammentari. Nella maggior parte dei casi per voucher per caparre, affitti, bollette o traslochi. Solo 8 regioni hanno promosso l’istituzione e l’uso di case di semi-autonomia, 11 invece hanno introdotto disposizioni per l’accesso agevolato all’edilizia residenziale pubblica.[1]

Non essendo disponibili in tutta Italia, tali strumenti rischiano di ampliare i divari territoriali esistenti. Per questo è necessario adottare norme e linee guida nazionali comuni per garantire un’autonomia abitativa sostenibile nel lungo periodo a tutte le donne che ne hanno bisogno, indipendentemente dal loro luogo di residenza. Inoltre, si dovrebbero introdurre percorsi agevolati per beneficiare delle misure già esistenti (es. criteri di accesso preferenziale all’edilizia pubblica e ai fondi per morosità incolpevole, sospensione gratuita del pagamento delle rate del mutuo), nonché istituire nuovi strumenti, tra cui, fondi per l’emissione di garanzie per l’affitto, contratti a canone calmierato o concordato anche con privati, e norme nazionali per la sospensione di ordinanze di sfratto. Per funzionare al meglio, queste proposte necessitano della stretta e continua collaborazione tra servizi pubblici responsabili delle politiche abitative e servizi di supporto e protezione delle donne che subiscono violenza.

Un lavoro che sia dignitoso

Un lavoro regolare e debitamente retribuito consente alle donne di lasciare la casa del maltrattante o la struttura di accoglienza, le rende autonome, rafforza la loro autostima e, soprattutto, garantisce un reddito sicuro nel tempo, elemento cruciale per il raggiungimento di una piena indipendenza economica. La ricerca e l’inserimento nel mercato del lavoro non sono le uniche preoccupazioni, anche il mantenimento dell’occupazione rappresenta una sfida per molte donne. Lavorare può significare, infatti, avere maggiori difficoltà a intraprendere o dare continuità a un percorso di fuoriuscita dalla violenza, soprattutto per chi ha un impiego precario o non è supportata nei carichi di cura. Le politiche e i servizi disponibili per la ricerca o il mantenimento dell’occupazione non sono sempre di grande aiuto perché mirano a rendere le donne autonome economicamente senza tenere conto dei loro effettivi bisogni o delle molteplici barriere che incontrano nell’accesso al mercato del lavoro. 

Condizioni lavorative precarie, salario basso, carenza di servizi per la gestione di carichi di cura, comportamenti discriminanti, assenza di una rete di trasporti pubblici possono trasformare il lavoro in un ulteriore ostacolo alla fuoriuscita dalla violenza, piuttosto che in un’opportunità. Per contrastare tale realtà, l’impegno delle istituzioni è ancora largamente inadeguato. Dall’istituzione dell’attuale sistema antiviolenza (2015), sono stati stanziati solo 35,6 miloini di euro per il reinserimento e l'inserimento delle donne nel mercato del lavoro. Si tratta di fondi nazionali, regionali ed europei, principalmente assegnati dalle regioni ai centri antiviolenza per attività di orientamento al lavoro, tutoraggio, corsi di formazione, borse lavoro e tirocini, ma anche per sgravi contributivi per incentivare le cooperative sociali ad assumere donne che hanno subito violenza. Di nuovo, si tratta di interventi in larga parte discontinui perché non ancorati ad alcuna norma.

Nel 2015, per il mantenimento dell’occupazione, sono stati istituiti il ricollocamento per le dipendenti della pubblica amministrazione a costo zero e il congedo indennizzato, per cui sono allocati circa 12 milioni di euro annui: una somma irrisoria. A fronte dell’aumento del 2,7% delle domande di congedo presentate (da 50 nel 2016 a 1.331 nel 2021), lo scorso anno solo il 32% è stato accolto. Insufficienti anche i tre mesi di astensione da lavoro previsti se si considera che, nel 2019, la permanenza media nelle case di accoglienza è stata di 137 giorni e il percorso complessivo di fuoriuscita dalla violenza dura generalmente molto di più. Per questo, il congedo dovrebbe essere esteso ad almeno sei mesi.[2]

Un sussidio per non arrancare 

Per riappropriarsi della propria vita, molte donne in fuoriuscita dalla violenza necessitano di un sussidio per avere una sicurezza economica nel breve-medio periodo. Di nuovo, gli strumenti messi a disposizione dalle istituzioni sono inadeguati. Solitamente si tratta di misure di contrasto alla povertà (es. reddito di cittadinanza) spesso inaccessibili a causa dei requisiti burocratici richiesti. Alcune donne, ad esempio, non riescono a produrre la dichiarazione Isee attestante la loro effettiva condizione economica, da cui dipende l’accesso a molte delle misure territoriali di welfare. Questo perché il maltrattante – percettore magari di altri sussidi – è ancora presente nello stato di famiglia o la richiedente dispone di patrimoni immobiliari o mobiliari a cui non ha accesso. Le strutture antiviolenza tentano quotidianamente di trovare delle soluzioni per superare questi ostacoli, a volte insieme ai servizi sociali locali, ma non sempre ci riescono.

Nate su sollecitazione dei centri antiviolenza e dei movimenti femministi, le misure di sostegno al reddito per le donne in fuoriuscita dalla violenza sono state adottate solo in anni recenti. Nel 2018 la Sardegna ha istituito il "reddito di libertà", un sussidio mensile di almeno 780 euro per massimo 3 anni. Nello stesso anno il Lazio ha introdotto il "contributo di libertà": 5.000 euro una tantum per coprire spese abitative e personali. Si è invece dovuto attendere il 2020 per il reddito di libertà nazionale. Inizialmente previsto per affrontare le difficoltà economiche causate dalla pandemia, nel 2022 è stato trasformato in uno strumento per favorire l’indipendenza economica delle donne che hanno subito violenza in condizioni di povertà. Con alcune modifiche, il reddito di libertà nazionale potrebbe soddisfare i bisogni economici di breve periodo delle donne. Innanzitutto, le risorse dovrebbero essere incrementate.

I 12 milioni stanziati in 3 anni non sono stati sufficienti a coprire la potenziale platea beneficiaria stimata in 21 mila donne l’anno.[3] Inadeguati sono anche i 400 euro mensili perché non tengono conto dell’effettivo costo della vita. La durata poi del sussidio dovrebbe essere estesa da 12 ad almeno 24 mesi. Soprattutto è urgente rendere strutturale la misura con apposita legge e invitare le Regioni a contribuire al suo finanziamento piuttosto che a duplicare le misure. Il reddito di libertà dovrebbe poi essere affiancato anche da politiche di contrasto alla povertà rispondenti ai bisogni delle donne in fuoriuscita dalla violenza, attraverso criteri di accesso agevolato. Ciò permetterebbe di moltiplicare le risorse disponibili, ottimizzare gli strumenti esistenti e rendere strutturali gli interventi di promozione dell’autonomia economica delle donne.

Diritti socioeconomici, l’unica via possibile

È quindi necessario ripartire dalla modifica delle norme che regolano il sistema antiviolenza, un’azione indispensabile, ma non sufficiente. L’approccio settoriale adottato dall’Italia fino ad oggi non ha dato infatti i risultati sperati. È indispensabile allora adottare politiche integrate, ovvero includere disposizioni riguardanti le donne in fuoriuscita dalla violenza nelle politiche che disciplinano il contrasto alla povertà, la ricerca e il mantenimento del lavoro, nonché l’autonomia abitativa. Adeguare le politiche esistenti, integrandole con azioni e criteri rispondenti ai bisogni specifici ed intersezionali delle donne così da consentirne l’accesso agevolato ai servizi, è certamente più efficace per favorire il percorso di emancipazione e la partecipazione, anche economica, alla vita del paese. Solo così facendo le donne in fuoriuscita dalla violenza potranno pienamente accedere ai propri diritti socioeconomici ed acquisire competenze, autonomia e potere per compiere scelte strategiche in ambito personale, sociale, politico ed economico e avere così il controllo sulle loro vite.

Note

[1] Rispettivamente Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Molise, Piemonte e Veneto; e Calabria, Campania, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Molise, Puglia, Umbria e Veneto.

[2] Istat, Il sistema di protezione per le donne vittime di violenza. Principali risultati delle indagini condotte sulle Case rifugio per le donne maltrattate e sui Centri antiviolenza. Anni 2020 e 2021, 13 maggio 2022.

[3] Istat, Audizione dell’Istituto nazionale di statistica Dott.ssa Linda Laura Sabbadini presso la XI Commissione (Lavoro pubblico e privato) della Camera dei deputati, Roma, 8 febbraio 2022.

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