Cambiano le città perché cambia il rapporto tra vita e lavoro. Alisa Del Re ripercorre la geografia delle trasformazioni urbane dall'epoca fordista ai nostri giorni

Il lavoro
cambia le città

di Alisa Del Re

Le città cambiano? Certo, anche se non sempre si modifica la struttura urbanistica. Cambia l’uso che di questa struttura, spesso immodificabile nelle nostre antiche città europee, si fa. Cambia il modello di vita, il modello delle relazioni, ma soprattutto cambia il rapporto tra vita e lavoro, perché cambia la qualità del lavoro, la sua organizzazione e la distribuzione del tempo di vita. E questo trasforma anche la quotidianità delle donne, il loro rapporto con il tempo, lo spazio e la socializzazione.

L’epoca fordista, quella delle grandi fabbriche, dei centri urbani degli affari, vedeva una distribuzione territoriale di genere molto definita, si pensi a quella della borghesia rampante americana, descritta nel libro di Richard Yates, Revolutionary Road[1]. Le relazioni sociali si strutturavano e si costruivano quotidianamente nei processi lavorativi centralizzati – nelle fabbriche, negli uffici - ed erano appannaggio di una popolazione sostanzialmente maschile. Nei quartieri periferici operai - con i grandi e tristi condomini-dormitorio - o piccolo-borghesi - con le schiere di villette che disegnavano tutte la stessa vita - le donne vivevano la solitudine della riproduzione domestica. La quotidiana mobilità del lavoro separava meccanicamente i sessi e le funzioni sociali. 

Nel post-fordismo la diluizione della grande fabbrica nel territorio, dapprima con l’esportazione di alcuni processi lavorativi all’esterno - se non addirittura, seguendo un processo di globalizzazione della produzione, al di fuori dei confini degli stati industrializzati -, in seguito con processi di meccanizzazione decentrata e informatizzazione del comando, ridisegna i processi lavorativi nel territorio urbano, la qualità del lavoro stesso, sempre meno manuale, e la forma del comando. Il “fare lavoro” produttivo si particolarizza, diventa autonomo, il comando sul lavoro si rarefà in una dimensione sempre più impersonale, sembra quasi sparire nell’adesione incondizionata al prodotto, soprattutto se si tratta di lavori “cognitivi” e di un prodotto intellettuale. Le modalità di lavoro si individualizzano e si incapsulano nelle case. 

Il rapporto “centro-periferia” si modifica, spostamenti globali di popolazioni disegnano molte periferie urbane non più come oasi di sinistra tranquillità domestica ma come cantieri aperti a nuove progettualità sociali, tanto da far dire a Enzo Piano: “Basta casette a perdita d’occhio. L’idea della città che cresce diluendosi si è rivelata insostenibile. Come porti i bambini a scuola, come organizzi il trasporto pubblico, come medichi la solitudine? Le città sono luoghi di incontro, di scambio, in cui si sta insieme, si costruisce la tolleranza, l’idea che le diversità non sono per forza un problema, sono una ricchezza. La città ora cresce per implosione, riempiendo i buchi neri”[2]. 

In questa situazione due condizioni si realizzano e impongono la loro efficacia trasformativa: la femminilizzazione del lavoro e la macchinizzazione informatica della casa.

Le case, isole polifunzionali

Da tempo ormai il lavoro si spalma nelle case, tanto che a gennaio 2016 il consiglio dei ministri italiano ha presentato un disegno di legge collegato alla legge di stabilità per regolamentare lo smart working o “lavoro agile”, cioè quella forma lavoro che consente di lavorare anche al di fuori dell’azienda, spesso proprio da casa. Le ricerche dell'Osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano riportano che quasi il 50% delle grandi aziende sta già sperimentando questo tipo di prestazione. Intanto, l’aggregato dei lavoratori definibili come “indipendenti” raggiunge complessivamente quasi 6 milioni di persone (Istat, 2011). All’interno di questi vanno naturalmente distinte diverse tipologie di lavoro, non sempre ben connotabili. Ma ciò che rappresenta la novità è la quantità di persone che non lavorano in luoghi “socializzanti” e che spesso non si spostano dalla propria abitazione per lavorare.

L’Isfol stima che il lavoro autonomo produca oltre il 18% del PIL[3]. Un livello considerevole, se si pensa che la quasi totalità delle attività si basa su micro-realtà, prevalentemente individuali. 

Questo trend significa, per le donne che hanno un lavoro salariato, l’attuazione della cosiddetta “conciliazione di tempi di vita e di lavoro”, affermata per tutti i lavoratori ma “pensata” per le donne, in modo che esse possano “lavorare da casa” ritmando il lavoro salariato con il ciclo riproduttivo. 

Con l’avvento dell’economia digitale le case diventano isole polifunzionali. Tutto questo sta avvenendo con grande rapidità: l’Italia che è la più lenta in Europa nell’innovazione digitale, ha finalmente programmato la banda larga entro il 2020, il che vuol dire che le trasformazioni appena descritte subiranno un rapido passo in avanti. Le smart cities di cui si parla tanto tendono a risolvere problemi con grande semplificazione attraverso le nuove tecnologie, ignorando la complessità dell’ecosistema urbano: la città è un sistema complesso, una realtà composita in cui vivono corpi con bisogni diversi. 

Per reagire positivamente a queste trasformazioni del lavoro, si vedono già tentativi di recupero di vita sociale per piccoli gruppi (tentativi che si stanno moltiplicando). Le sperimentazioni di co-housing, con progettualità comuni nel modo di vivere, espansive sovente verso il quartiere, con spazi di condivisione di tempi di vita e, nelle forme più recenti, anche con l’introduzione di spazi di co-working, mantenendo il lavoro individuale, ma in un luogo dove i corpi si vedono, si parlano. In questo contesto di grande mutamento epocale, il problema principale è senza dubbio la perdita della coesione sociale e la disgregazione della vita comunitaria. I servizi in comune, spesso la condivisione dei trasporti o i gruppi di acquisto solidale, il car-sharing, i mercatini di scambio dell’usato, le banche del tempo, gli orti comunali, le cooperative di badanti di condominio, le cliniche sociali, fanno uscire dal chiuso delle case sia parte del lavoro di cura che parte del lavoro salariato.

Ciò modifica la struttura urbana, il modo di pensare la città, il quartiere, coinvolgendo in questa ridefinizione gli abitanti e aprendo alla socializzazione il lavoro riproduttivo.

Sono sempre più numerose le donne che mettono al centro delle proprie riflessioni, preoccupazioni e progetti il complesso legame che esse intrattengono con la città, sia come amministratrici pubbliche, politiche, professioniste - architette o urbaniste, sia come singole o gruppi di cittadine.

Progettare città diverse

Molti cambiamenti urbani sono legati alla digitalizzazione, al bisogno cioè di adattare infrastrutture, residenze e spazi pubblici all’era telematica. Ma un’altra visione è possibile, cioè quella di condividere la conoscenza della struttura degli spazi urbani, rendendo la città ai cittadini. Come a Roma, in cui le dipendenti del comune hanno ideato e realizzato un’app perché le donne possano meglio orientarsi per usufruire dei servizi e delle strutture che la città offre nei settori della vita quotidiana (salute, lavoro, famiglia, tempo libero, contrasto alla violenza ecc.). La cosa interessante è che questa app è stata ottenuta coinvolgendo donne che abitano la città e che hanno espresso esigenze di diverse soggettività. Quindi con un metodo che non fa calare dall’alto le informazioni, ma che raccoglie le indicazioni di chi vive nella città.

Il caso più noto è quello di Vienna, in cui a partire dal 1992 è stato istituito dal comune il “women’s office” per ricercare soluzioni urbane vivibili attraverso la presenza attiva delle donne. Oggi è inserito nelle politiche urbanistiche della città, e ha il compito di valutare quali sono i progetti che seguono delle linee guida di genere nelle modificazioni urbanistiche e nella costruzione di quartieri residenziali. Solo questi progetti potranno avere i finanziamenti statali per la costruzione.

Non si tratta di fare una città per le donne, ma di accettare che non ci sia un modello unico di cittadino. Nelle diversità chi deve essere privilegiato e ascoltato è il meno autonomo, per rendere la città fruibile per tutti. È evidente che tutto ciò funziona se c’è una forte volontà politica antidiscriminatoria nelle istituzioni e se i saperi di genere disegnano il mainstreaming dei progetti.

A Madrid la sindaca Manuela Carmena, in carica da circa un anno con una coalizione che vede presente anche il movimento dei “15M”, ha come principale obiettivo fare di Madrid “una città governata dai suoi abitanti”. Per questo ha attivato la decisione di destinare 60 milioni delle casse municipali alla realizzazione di progetti proposti e scelti dalla cittadinanza. Il progetto, in atto, si concluderà il 30 giugno 2016 per la scelta dei progetti e questi entreranno in bilancio del 2017.

Una delle sue definizioni di politica per la città riguarda le persone "dipendenti", come i bambini. Nel progetto Madrid+natural le parole d’ordine si avvicinano molto ai progetti di spazi verdi di Vienna: orti e boschi urbani; ombreggiature stagionali; microclima con acqua; aree inondabili e drenaggio sostenibile. Per gli edifici, poi, vengono proposte misure come l’incremento di facciate verdi e giardini verticali su larga scala, coperture sostenibili e corridoi ecologici. Per le infrastrutture si punta ad aumentare la vegetazione sulle strade, a recuperare gli argini dei fiumi e a predisporre superfici permeabili. 

Un’altra sindaca, Ada Colau, a Barcellona, è stata ed è attivista della PAH (la piattaforma anti-espulsioni immobiliari lanciata nel 2009 in Catalogna). Con la PAH si tocca la questione della casa, dell’habitat, della sopravvivenza, della vulnerabilità del corpo. La piattaforma ha saputo organizzare la vulnerabilità per trasformarla in azione politica. Ada Colau è una delle più strenue sostenitrici e promotrici delle virtuose pratiche politiche “dal basso”, come il mutualismo sociale e le reti di solidarietà. Da sindaca ha lanciato un appello per trasformare Barcellona in una città-rifugio per immigrati siriani, un appello all’accoglienza. Le parole d’ordine della nuova giunta, anche grazie all’impronta della Colau, sono mutualismo, autorganizzazione, ecologia e solidarietà. 

Tornando in Italia, oltre ai tavoli delle donne di Milano, una pratica interessante, anche se su piccola scala, è stata quella di Portogruaro. La legge regionale veneta n. 11 del 23 aprile 2004 ha promosso un nuovo modo di affrontare la pianificazione urbanistica, reinterpretandola in termini di governo del territorio. Molte delle innovazioni riguardano il Piano di Assetto del Territorio (PAT) e il Piano degli Interventi (PI). Definiti gli obiettivi della pianificazione territoriale e urbanistica, sono state promosse forme di concertazione e partecipazione. L’intervento delle donne di Portogruaro al PAT è stato organizzato con i “laboratori di genere”, originati dal progetto “GentilMente”, sviluppatosi in piena autonomia rispetto al PAT allo scopo di elaborare il Piano di Azioni Positive previsto dalla Carta Europea per la Parità. Inserire l’approccio di genere ai piani è qualcosa di complesso e articolato. Presuppone la conoscenza degli impatti sul genere delle politiche territoriali. Richiede l’analisi della domanda, segmentandola per genere e categorie sociali e necessita dell’integrazione dei quadri conoscitivi con dati disaggregati per genere. Significa anche introdurre la dimensione temporale nella pianificazione, assumendo la quotidianità quale elemento generatore di scelte finalizzate a migliorare la qualità della vita dei cittadini e delle cittadine. Comporta la costruzione di specifiche geografie di genere per una reale implementazione trasversale del mainstreaming delle pari opportunità negli strumenti di pianificazione territoriale. 

Gli esempi riportati sono parziali, ma hanno una caratteristica comune - certo non necessaria, ma si tratta di un dato di fatto -  quella di essere stati pensati e realizzati da donne. Il “prodotto” non è una città “al femminile”, non è una città “per le donne”, ma una città vivibile per tutti.

Leggi tutto il dossier "Che genere di città" a cura di inGenere.it

Riferimenti bibliografici

Del Re A., "Il lavoro di cura e il valore” in Del Re A., Perini L., Gender politics, Padova, Padova University Press, 2014

Toffanin T., Fabbriche invisibili. Storie di donne, lavoranti a domicilio, Verona, Ombre Corte, 2016

NOTE

[1] La situazione descritta da Revolutionary Road – il romanzo di Richard Yates del 1961 – mostrava la realizzazione di una strategia per confinare le donne nello spazio suburbano e nella loro definitiva solitaria collocazione domestica.

[2] Periferia, Enzo Piano, Corriere della sera 29 marzo 2016, p. 25 (intervista di Aldo Cazzullo)

[3] Lavoratori autonomi. La dimensione del lavoro autonomo. Isfol, 2013


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