In Italia manca una figura integrata nelle amministrazioni pubbliche per una pianificazione urbana di genere. Ne parliamo con Francesca Zajczyk, docente di sociologia urbana all’università Bicocca e delegata alle pari opportunità nel comune di Milano
Di città sostenibili, inclusive, diversificate, si fa un gran parlare. Le città che viviamo, però, almeno in Italia, sono ancora pensate come paesaggi destinati a essere abitati e attraversati da corpi maschili, adulti, benestanti, residenti. Che ne è della cittadinanza? Che tipo di policies sono necessarie per adottare un'agenda urbana diversa? Di proposte, anche a livello europeo, ne sono state fatte. Basti pensare al dibattito nato attorno alla Carta europea per le donne nelle città del 1994, che riconosceva che "tutte le donne hanno diritto a un alloggio e a un habitat appropriato". E che "in particolare quelle più sfavorite e isolate, devono disporre di tutte le facilità di accesso ai trasporti per potersi muovere liberamente e in piena sicurezza, per godere pienamente della vita economica, sociale e culturale della città". Di nuovi modelli di città e prospettive urbane di genere, ne abbiamo parlato con Francesca Zajczyk, docente di sociologia urbana all’università Bicocca e delegata alle pari opportunità nel comune di Milano, da anni attiva nella ricerca sulla progettazione urbana in Italia e in Europa.
Nel libro Città tra sviluppo e declino. Un’agenda urbana per l’Italia (a cura di A. Calafati, Donzelli, 2014) c’è un capitolo in cui parli di “una prospettiva di genere per una città più armonica e condivisa” a cosa ti riferisci esattamente, dal punto di vista delle politiche?
Il capitolo che citi nasce da un intervento tenuto a L’Aquila due anni fa, nel corso di un convegno dedicato ad un’agenda urbana per ltalia, e a cui avevano partecipato soprattutto architetti e urbanisti, e un piccolo gruppo di sociologia della Bicocca, tra cui c’ero anch'io che come sociologa urbana avevo voluto cogliere l’occasione per lanciare il tema. Perché secondo me a livello italiano non c’è molto. Se ne sono occupate soprattutto le architette. Però non si è mai riusciti a dare una effettiva concretezza sistematica. Il tema è quello di una prospettiva di genere nelle politiche urbane. Qualcosa che può tradursi nel cosiddetto bilancio di genere, anche se mi sembra uno strumento troppo complesso per le nostre città. Diciamo che in una prospettiva urbana di genere c’è bisogno di tener conto di quale possa essere l’impatto specifico delle politiche adottate sulla popolazione femminile. Qualunque tipo di politica potrebbe avere un approccio di questo tipo, e poi si possono fare gli aggiustamenti del caso, per favorire la qualità della vita delle donne in una città.
Sembra qualcosa di molto diverso da quello che accade di solito, almeno in Italia…
Sì, quello che accade di solito è che le politiche fanno riferimento a una città “neutra” pensata su una popolazione fondamentalmente maschile, e questa pianificazione esclude anziani, donne, bambini. E invece, oggi più che mai le donne attraversano cicli di vita sempre più complessi e hanno esigenze che vanno rispettate. Non a caso Vienna, città simbolo da questo punto di vista, ha lanciato uno o due anni fa un sondaggio rivolto alla popolazione femminile per ricostruire gli specifici comportamenti e modelli di mobilità, perché le donne si muovono sia con mezzi di trasporto diversi rispetto agli uomini, nel senso che vanno più a piedi e usano di più i mezzi pubblici, ma hanno anche modalità e profili di comportamento differenti. Assistiamo a città che sono sempre più diversificate al loro interno, sia dal punto di vista demografico che dei ruoli svolti dalle persone. E ne va tenuto conto anche in una specifica prospettiva di genere. Il mio tentativo partiva proprio da qui, perché non c’è una particolare letteratura di riferimento, a parte il discorso sulla sicurezza urbana.
Tu hai citato più volte le “politiche temporali” come un caso di policy che ha cercato di tener conto di queste esigenze specifiche, considerando la città non come uno spazio “neutro”, ma come un luogo di differenza. Ci spieghi meglio perché?
Credo che l’esperienza delle politiche temporali a Milano abbia rappresentato un interessante tentativo di proporre una policy veramente trasversale, perché mettendo al centro la vita delle donne tendeva a un miglioramento della qualità della vita di tutta la collettività. Dalla riflessione partita negli anni ’90, si arrivò alla elaborazione di un vero e proprio piano regolatore dei tempi urbani di Milano - anche se per anni si continuò a parlare solo degli orari dei negozi - e alla produzione di tre volumi sia di riflessioni teoriche che di analisi secondaria, che raccoglievano una serie di dati utili per capire alcuni aspetti dell’uso del tempo della popolazione. Questo progetto era coordinato da un comitato scientifico di cui facevo parte insieme a Sandra Bonfiglioli e Antonio Chiesi.
Perché lo ritieni un progetto così importante.
Fu un progetto importante anche per il suo dar seguito a una discussione sulle vite delle lavoratrici iniziata in ambito sindacale, si cominciava in quegli anni a parlare di conciliazione, Laura Balbo aveva lanciato il tema della “doppia presenza”, era appena stata diffusa una proposta di legge di iniziativa popolare che aveva come prima firmataria Livia Turco e si chiamava proprio “Le donne cambiano i tempi”… Ecco è in questo periodo che nascono le politiche temporali e nascono proprio in Italia, questo è un aspetto interessante, vale a dire che sia l’unico caso di una proposta di riorganizzazione della vita sociale urbana di questo tipo, poi accolta con molto entusiasmo dalla comunità europea, e in alcune città dove ha trovato degli sviluppi concreti, come Parigi, o Amsterdam. Invece in Italia nonostante questa proposta sia poi approdata nella legge 53 del 2000 - che prevede l’obbligo per tutti i comuni al di sopra dei 30mila abitanti di costituire un ufficio tempi – il senso iniziale è stato in qualche modo annacquato. Anche il comune di Milano, che ha assunto il tema del piano dei tempi, non ne ha fatto uno strumento che mettesse al centro una prospettiva di genere, ne ha fatto uno strumento neutro.
Ci sono invece casi di città europee che hanno deciso di offrire maggiore spazio alla prospettiva di genere nella pianificazione urbana e nella gestione dei territori?
L’esperienza berlinese e quella di Vienna sono centrali. Questo non è un caso, ma dipende da scelte precise anche a livello di organigramma delle strutture organizzative. Loro hanno un vero e proprio gender city manager, una persona incardinata nella struttura amministrativa e politica della città che ha il compito di controllare e lavorare insieme agli assessori sulle azioni e sulle politiche di qualsiasi tipo, mantenendo questo particolare tipo di attenzione e sensibilità. Anche Stoccolma ha una figura che svolge questo ruolo. In Italia essere delegata alle pari opportunità ha invece una valenza prevalentemente di rappresentanza, non così strutturata all’interno dell’amministrazione, non così di peso nella progettazione e nell’attuazione delle politiche.
Cosa accade, più nello specifico, nel settore della pianificazione dei quartieri? Quali possono essere le politiche per procedere nella direzione del contrasto all’isolamento a cui spesso proprio le donne sono costrette in quartieri periferici e poco serviti dai trasporti?
Vienna prima, così come Berlino più tardi, hanno iniziato proprio dalla sperimentazione di una progettazione partecipata in una prospettiva di genere. La modalità partecipativa della progettazione diventa quindi una precondizione indispensabile per il gender planning urbano. Ma la modalità della progettazione partecipata sembra inadeguata agli alti livelli di complessità che riguardano in particolare grandi città come Milano o Roma.
E cosa ne pensi di soluzioni come il cohousing?
Il tema della complessità e della diversificazione delle città è talmente vasto e rapido. Per fare un esempio, quello delle famiglie monogenitoriali, a Milano il 15% delle straniere è costituito da donne “sole” con figli a carico, una percentuale molto più alta che tra le italiane. Il cohousing può essere assunto come una modalità dell’abitare molto diversificata. È partita come una modalità che potesse favorire l’intergenerazionalità, la convivenza tra anziani, coppie, giovani, e credo che oggi sempre di più sia una modalità che possa rispondere ad esigenze diverse, come quelle di madri, anziane, migranti, che proprio perché “sole” in un’età anche intermedia della vita, da forme di vicinanza possono trarre soltanto dei benefici sia sul piano fisico che psicologico. Il cohousing può essere uno strumento di straordinaria apertura nella progettazione urbana. In Italia siamo agli inizi, in questa direzione. Milano sta facendo delle esperienze interessanti in questo senso, è partita con esperienze promosse dalla Cariplo, legate più alla questione dell’inclusione sociale e del tenere insieme generazioni diverse, per favorire anche da un punto di vista economico le famiglie giovani che sono in genere più disposte a forme di scambio e di condivisione degli spazi e che dal cohousing possono trarre anche un beneficio in termini di risparmio economico.
Insomma, dall'analisi che fai, la tendenza in Italia sembra essere quella di lasciare spazio alla riflessione, e poi di neutralizzare questi contenuti quando si passa alle politiche. È così?
Questa è una prospettiva fin troppo ottimista. L’Italia mi sembra abbastanza ferma. Il problema principale nel nostro paese è proprio uno scollamento tra il mondo della ricerca e quello dell’amministrazione e della burocrazia. C’è il caso della sperimentazione del bilancio di genere, in città più piccole, come Modena. O ci sono singoli progetti, che esistono già, e che possono avere tra i risultati anche quello di facilitare la vita delle donne, è il caso dei progetti di “piedibus”, nati principalmente per favorire una mobilità sostenibile, e che possono avere anche l'obiettivo secondario di conciliare i tempi per le donne che lavorano. Infine, essendomi occupata di pubblicità sessista in diverse città ho avuto modo di vedere come le amministrazioni locali siano disposte ad affrontare la questione, in relazione soprattutto agli spazi per le affissioni. Torino e Genova avevano iniziato a muoversi in questo senso, e Milano ha approvato nel 2013 una delibera molto dettagliata nel definire le diverse tipologie di pubblicità sessiste, che poi è stata ripresa dall’Associazione nazionale comuni italiani (Anci) per la redazione di un protocollo guida. Ma, nel complesso, una prospettiva urbana di genere non c’è, la strada da fare è ancora molta.
Leggi tutto il dossier "Che genere di città" a cura di inGenere.it