Trovare lavoro è un passo fondamentale per l'autonomia delle donne che decidono di fuoriuscire da una storia di violenza. Tre sportelli nati dentro a centri antiviolenza di tre diverse città italiane raccontano progetti e misure di inclusione possibili

Trovare lavoro per
uscire dalla violenza

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Foto: Unsplash/ wocintechchat

Lavorare sul reinserimento lavorativo delle donne vittime di violenza è un intervento globale che punta a evitare che un vissuto di temporaneo disagio si traduca in un vero e proprio “svantaggio sociale”. 

Uno sportello lavoro presente all’interno di un centro antiviolenza – che in genere opera in stretta connessione con l’area psicologica – ha perciò un compito complesso: aiutare le donne a riconnettersi con il contesto sociale di riferimento, ritrovare fiducia in relazioni interpersonali e socio-lavorative sane e avviare una ricerca del lavoro mirata. Tutto questo, anche attraverso il supporto e la selezione delle offerte di inserimento messe a disposizione dalle operatrici.

Per una donna che è stata vittima di violenza il lavoro è infatti il punto chiave per riprendere o iniziare un percorso di autodeterminazione, e per farlo il prima possibile. “Le donne affiancate dal centro antiviolenza afferma la coordinatrice della Casa delle Donne Maltrattate Onlus di Milano, Cristina Carelli hanno bisogno di affrontare la sfera professionale in tempi precoci, quando la finalità non è ancora la ricerca di un’occupazione, ma la presa di contatto con i segni lasciati dalla violenza e le loro ricadute in tutti gli ambiti della propria vita”.

Ma quanto è davvero efficace l’operato di uno sportello lavoro ai fini dell’inserimento professionale? 

La Casa delle Donne Maltrattate Onlus di Milano esprime una certa soddisfazione: “considerando solo i due anni in cui abbiamo realizzato il progetto Dpo Crea afferma Carelli tra le 306 beneficiarie, 116 hanno usufruito della formazione interna gestita grazie all’attività di volontariato aziendale con Pomellato, mentre 113 hanno trovato un impiego che garantisce almeno una prima forma di indipendenza economica”. 

La strada, però, nonostante i numeri incoraggianti, è ancora tutta in salita. Anche se la direzione di marcia è piuttosto chiara. “Per prima cosa spiega Carelli occorre evitare che le donne perdano il lavoro a causa del vissuto di violenza, cadendo in un’ulteriore forma di violenza o in un suo aggravarsi; in secondo luogo, occorre sensibilizzare le aziende al riconoscimento dei segni della violenza affinché le donne si sentano comprese e sostenute”. E poi c’è il tema dei fondi necessari ai centri per garantire alle donne di poter realizzare il percorso di fuoriuscita dalla violenza nei tempi necessari alla riacquisizione della propria serenità e sicurezza. Non ultimo “il tema della conciliazione, perché spesso le donne che si rivolgono ai centri antiviolenza sono madri” aggiunge Carelli.

Una donna vittima di violenza che cerca lavoro, non di rado, si scontra anche con diversi pregiudizi. “Da parte delle aziende sottolinea Rosa Di Matteo di Arcidonna Onlus di Napoli – forte dell’esperienza di due centri antiviolenza, uno autofinanziato e un altro finanziato da Fondazione con il Sud – c’è una diffidenza di fondo rispetto alle donne vittime di violenza, che ci ha spinto a non raccontare integralmente le loro storie. L’azienda teme infatti che il maltrattante si possa recare presso la propria struttura e creare scompiglio”. 

È soprattutto da parte degli uomini che si riscontra maggiore diffidenza. “Nelle aziende a conduzione femminile commenta Di Matteo la percentuale di chi non si fida cala sensibilmente”. 

Il 70% circa delle donne che si rivolgono ad Arcidonna Napoli non hanno mai lavorato oppure sono state costrette a lasciare il posto di lavoro. Per questo, ancora più delicato risulta il momento dell’inserimento.  

“Sono ventidue anni che portiamo avanti la nostra attività racconta Di Matteo e nel corso degli anni abbiamo seguito più di 7000 donne”. Per le donne che si rivolgono al centro antiviolenza Arcidonna “l’indipendenza economica resta un fatto centrale”. Attualmente qui è in corso il progetto S.A.L.V.A, della durata di tre anni, con dieci tirocini formativi e sei borse alloggio. “In questo progetto spiega Di Matteo ci siamo concentrate sui due elementi strutturali rispetto al contrasto alla violenza: lavoro e casa”. 

Più del 90% delle donne che si rivolgono al centro antiviolenza Arcidonna di Napoli sono vittime di violenze consumate all’interno della famiglia. “Si tratta di violenze domestiche, fra partner, o del genitore sulle figlie” puntualizza Di Matteo. Ed è proprio grazie a un progetto come S.A.L.V.A, e altri simili, che sta aumentando la sensibilità delle aziende al reinserimento nel lavoro delle donne vittime di violenza. “Quanto è stato fatto in questi anni commenta Di Matteo ha permesso di creare un clima favorevole rispetto alle nostre offerte professionali”. Ma sottolinea: “quando però l’atteggiamento favorevole deve tradursi in piena assunzione di responsabilità da parte dell’imprenditore, lì riscontriamo ancora problemi”. 

Una volta uscite dal percorso di sostegno, di molte donne poi si perdono le tracce: “i centri antiviolenza non sono una realtà stabile e quindi, quando un centro viene messo a bando e vince un consorzio, perdiamo i contatti con le donne prese in carico dalla nuova realtà” spiega Di MatteoQuesto non ci permette di seguire una donna nel tempo e dunque anche di monitorare il suo sviluppo professionale”.

Vanno meglio le cose nei centri antiviolenza di realtà più piccole come quello di Rimini, che conta 23 comuni in tutta la provincia. Un progetto nato dall’Associazione Rompi il silenzio, attivo dal 2005, che da circa una decina di anni offre uno sportello lavoro al suo interno, in collaborazione con la Regione.

Soltanto nel 2018, 89 persone, fra donne e bambini, sono state ospitate nelle case rifugio attraverso lo sportello di Rimini. E una buona parte di queste sono arrivate da fuori regione. “Accogliamo forse più donne da fuori che dal nostro territorio” dice la presidente, Paola Gualano. “Le donne che si spostano per trasferirsi ricominciano tutto da capo. Per queste è fondamentale attivare da subito la ricerca di un lavoro”. E aggiunge: “lo sportello lavoro non ha dei grandissimi fondi ma ci consente di attivare un discreto numero di tirocini e di corsi di empowerment, che stiamo realizzando all’interno del centro”. 

Qui, si fa anche molta attenzione alle tutele previste dalle norme. “Quando c’è la necessità della messa in protezione di una donna afferma Gualano spesso usiamo la legge che prevede l’assenza dal lavoro per tre mesi, con il mantenimento dello stipendio”. Non solo. “Ci sono anche aziende che garantiscono ulteriori tre mesi di assenza dal lavoro oltre ai tre previsti per legge”. 

Gualano non ha dubbi: “Il lavoro è il punto focale per poter far ripartire le donne. Le puoi accogliere, le puoi mettere in protezione, puoi seguirle da un punto di vista legale e psicologico, ma alla fine se non riesci a farle ripartire con l’autonomia, e quindi con un lavoro adeguato, è proprio lì che i problemi cominciano a essere seri”.

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