Storie

Dopo la pubblicazione del suo libro sulla procreazione medicalmente assistita, l'autrice si è trovata al centro di un dibattito vivacissimo e in dialogo con donne e uomini in tutta Italia che si sono identificati con Carla, la protagonista, e il suo compagno. Una storia come quella di molti, tra cliniche e blog, litigi e lacrime ma anche gioia e desiderio a caccia della cicogna

Le difettose e le storie
dopo il romanzo

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L’infertilità nel mondo occidentale sta aumentando ed è destinata a crescere nei prossimi decenni sempre di più, tanto da costringere l'Organizzazione mondiale della sanità ad annoverarla tra le malattie sociali.

Da quando è uscito Le difettose, il mio romanzo d'esordio (Einaudi aprile 2012), mi è capitato di fare una cinquantina di presentazioni e di ricevere centinaia di mail da parte di lettrici e lettori. La sensazione è di aver colto un argomento controverso, pieno di pregiudizi ma vivo, anzi vivissimo. Perché il desiderio di un figlio non è un desiderio come un altro. Anche se si può essere madri in tanti modi, non solo facendo bambini (Anna Maria Ortese diceva che creare è una forma di maternità, educa, rende felici e adulti in senso buono), anche se la maternità non è necessaria per sentirsi pienamente donne, è indubbio che essa rappresenti un'esperienza enorme e unica, non surrogabile, che va a toccare profondamente l'identità femminile, e ne è una delle espressioni più complesse, ambivalenti, creative.

Non riuscire a realizzare questo desiderio atavico, di conseguenza, non è come non realizzare un altro desiderio. "Sono diventata cieca a otto anni. La cecità l'ho accettata, l'infertilità no", racconta una ragazza a Carla, la protagonista de Le difettose. Mi sembra un'affermazione forte ma realistica e paradigmatica. Una donna infertile sente di fallire uno dei compiti principali della sua femminilità. Si sente defraudata di un diritto elementare. Si percepisce vuota, incompleta, anello mancante di una catena millenaria. Difettosa, appunto.

E se ricorre alla fecondazione artificiale sa di essere giudicata doppiamente difettosa. Perché, invece di fare di necessità virtù, si ostina, osa sfidare la natura che, in quanto emanazione divina, è sempre buona e giusta.

Io ho vissuto la disperazione e la rabbia di quando non arriva un figlio che desideri. E l'ho vista in donne per cui la maternità rappresentava da subito la scelta più piena ed esclusiva per la propria realizzazione e in chi invece, come me o Carla, il figlio per parecchio tempo non è stato la priorità assoluta e che fino a un certo punto hanno dato spazio allo studio, agli interessi, all'affermazione professionale. E che magari hanno aspettato un uomo che risvegliasse la loro voglia di diventare madri. In tutte, però, ho ritrovato la stessa profonda sofferenza, capace di portare addirittura a pensare alla morte e al suicidio. Quando un figlio non viene, la letteratura psicanalitica parla di esperienza di lutto. Dovunque mi giro avverto la sua assenza. E' così terribilmente presente l’assenza di mio figlio che tutto mi parla di lui. Di lui che non c’è. Che continua a non esserci. La sua assenza ingigantisce ogni giorno di più, dice Carla nel mio libro.  

Per questo sbaglia chi giudica il volere un figlio “a tutti i costi”, secondo un'espressione ormai in voga e un po' fastidiosa, come un semplice capriccio o una fissazione da persone viziate, carrieriste, egocentriche e anziane. La faccenda è molto più complessa e a niente valgono i consigli "generici" di mettersi il cuore in pace. E' anche sbagliato pensare che in altre epoche meno caparbie della nostra fosse più facile prenderla con filosofia. Dammi dei figli sennò muoio, dice Rachele a Giacobbe nella Bibbia: lo stesso grido lo trovo nelle lettere e nei messaggi che ancora ricevo, lo stesso struggimento lo leggo nelle numerosissime favole che parlano di coppie che non riescono a procreare (bellissima quella del XVII secolo dove una regina per rimanere incinta di giorno prega Dio e di notte il diavolo). In altre epoche forse erano diverse le soluzioni e i bambini si adottavano "artigianalmente" (se una famiglia ne aveva troppi e la vicina di casa nessuna, quelli in più venivano ceduti con una certa disinvoltura, oggi inimmaginabile) o si rubavano (ad esempio quelli delle serve). Ma il dolore per la propria sterilità, da sempre considerata alla stregua di una disgrazia o, peggio, di una punizione divina, è lo stesso.

Se su Google si digita “forum infertilità appaiono più di un milione di voci. Pur non essendo veramente così numerosi, i forum sono comunque tantissimi, un mondo che, fino a quando non ci sono entrata in contatto, era a me sconosciuto, eppure reale, anzi realissimo, sommerso ma poliedrico e sfaccettato. Una specie di grande famiglia, di rete carbonara invisibile a occhio nudo, che protegge e sostiene. Infatti la donna “difettosa” fa fatica a parlare delle sue difficoltà con amici, colleghi, parenti. Per questo ci si butta in rete, dove si trova una possibilità di racconto e di ascolto senza giudizi e senza vergogna. Grazie al nickname, che rappresenta una sorta di maschera e come la maschera nei tempi antichi nasconde il volto ma permette di entrare in un mondo rituale, magico, extra-ordinario, si diventa capaci di trasmettere il proprio vissuto e comunicare in modo profondo, intimo, autentico. E ci si sente meno sole. Meno difettose.

Per noi “fivettare” le mestruazioni sono le “rosse” o le “malefiche” o le”maledette”, i ginecologi semplicemente i “gine”, i rapporti mirati i “compitini” o le “maratonate”, dopo il transfer degli embrioni “facciamo la cova” e al decimo giorno post ovulazione cominciamo a “sticcare”, non si rimane incinta ma “si becca la cicogna”, detta anche, con un po’ di disprezzo per le sue latitanze, la “pennuta”, però quando la becchiamo diventiamo carne della sua carne e “ci incicogniamo”. E giù sigle: pma, icsi, fivet, iui, po, pm, pgd, ivf, geu. Sembriamo studentesse delle medie che parlano in codice per estromettere gli adulti da faccende che non capirebbero. Ogni giorno sui forum di donne che cercano un figlio m’impantano in chat invase, come i diari dell’adolescenza, di sfoghi, di confidenze brutali, di soccorso reciproco, di “ragazze, vi voglio bene”, di “brancolo nel buio ma grazie al vostro aiuto procedo”, di “ora sono triste e vuota ma per fortuna ci siete voi”, alla faccia di tutti i dottorini senza cuore che erigono dighe per fronteggiare i nostri assilli di femmine che non riescono a procreare.

Io credo che di procreazione assistita occorra parlare sempre di più, con competenza, senza preconcetti o rimozioni, visto che è destinata a rivoluzionare simbolicamente, socialmente, giuridicamente il terzo millennio, spazzando via il vecchio modello unico e standard di famiglia, fornendo nuove proposte, aprendo i confini del materno. Occorre così formulare un pensiero che non contrasti e ostacoli queste possibilità sempre più numerose ma sappia interpretarle, colmando un vuoto esistente di riflessione, rispondendo a smarrimenti e interrogativi nuovi. Sulla fecondazione eterologa, ad esempio. Sulle madri che partoriscono figli biologicamente non propri.  Sulle donatrici di gameti. Sul dare o meno ai figli la possibilità di conoscere i loro genitori biologici. Su cosa significa esattamente padre e madre biologici. Sul posto dei legami genetici nella filiazione. Sullo statuto che hanno i donatori nell'immaginario dei riceventi.

Perché, come considera a un certo punto Carla, forse in futuro sembrerà ridicolo il senso di possesso genetico dei figli. Si faranno con incastri variegati e incroci arditi. Ci sarà un vitale meticciato dei genomi, come già esiste quello delle razze. In fondo cosa ci sarebbe di male? Ci sono a piede libero tanti genitori scriteriati e pericolosi, perfettamente regolari. Di quelli non ci si preoccupa? Se avessi avuto un figlio a quindici anni che terrificante madre naturale sarei stata? Una nuova umanità concepita nelle fabbriche della vita. Ogni embrione potrebbe avere una madre doppia o un padre doppio. Oppure un padre doppio e una madre doppia. O addirittura tripla. La madre che decide di esserlo, la donatrice dell’uovo e la donna che affitta l’utero. Uomini e donne non piu singolari ma plurali e composti. Figli amati, desiderati, immaginati nei cuori e nei corpi di tante persone. Una moltiplicazione degli affetti. Un’esplosione delle origini. Donatori di vita misteriosi, lontani, sconosciuti, e genitori presenti e responsabili. Fratellastri e sorellasti ignoti in giro per i cinque continenti. Il monoteismo genetico sembrerà una faccenda primitiva.