Teatro. Vittoria, dalla Calabria a Milano, attraverso due generazioni. Saverio La Ruina porta in giro per l'Italia un monologo che parla di aborto, per ragionare sul passato in continuità con un presente in cui i diritti acquisiti non sono certi e la mentalità di molti non è cambiata. Ma apre anche alla possibilità di sguardi differenti
Le mani accennano piccoli gesti, oppure riposano, stanche, in grembo. La figura è seduta, composta, i piedi nelle pantofole, un paio di calzette colorate a riscaldarli. E la voce, densa e antica, talvolta quasi un sussurro, racconta e incatena. C’era una volta Vittoria, c’erano tante Vittorie in quel paese della Calabria che parla un dialetto aspro ma che, a tratti, scintilla d’ironia gentile, lingua severa che sa ben dire o lasciare intuire l’intimo delle madri, l’intimo delle donne e insieme la vita che scorre con i suoi codici ferrei e i suoi riti immutabili. C’era una volta Vittoria e ha raccontato nientemeno che a Gesù e agli apostoli la propria storia.
“La borto”, monologo passato di recente e assai applaudito al Crt di Milano (in giro per l’Italia, date su www.scenaverticale.it) potrebbe essere “solo” la storia di un aborto: questo è alla fine il cuore del racconto che Saverio La Ruina, in scena a prestare la voce a Vittoria con il solo accompagnamento della partitura per fiati di Gianfranco De Franco, propone in poco più di un’ora di spettacolo. E invece l’aborto per il quale Vittoria viene in principio rimproverata da Gesù è l’apice drammatico della sua vita quanto dello spettacolo, ma resta legato in maniera ferrea al suo prima e al suo dopo, a dire quanto poco senso abbia parlarne senza guardare alle vite, alle scelte, ai corpi, alle emozioni. Discorso di ieri, quando la legge non c’era e per le donne povere erano tavoli da cucina e ferri da calza, discorso di oggi se è vero che ne sono tuttora strumentalmente invasi lo spazio pubblico come le campagne elettorali.
E allora Vittoria: Vittoria che si fa grande sotto l’avido sguardo maschile che seziona le giovani donne – sono i “geometri” seduti al caffè Unione, alle cui mute ma eloquentissime radiografie ogni ragazza deve sottostare – Vittoria che a 13 anni va sposa per volontà della famiglia e se lui è brutto, vecchio e sciancato, lei sa rintracciare in quel volto una luce di umanità che riesce, seppur per pochissimo, a farglielo caro. Perché poi la storia gira, storia di tante Vittorie in tanti paesi, e la geografia non è la sola chiave per leggerla: storia desolata in cui gli uomini impongono sesso e dicono “arrangiati” quando le notti disperate producono gravidanze, una due, tre, saranno già sette per l’appena ventottenne Vittoria. Storia in cui le donne fanno coro, ognuna specchio dell’altra e di quella che è venuta prima di lei e ciascuna con una sapienza del vivere che mescola al dolore e alla pazienza uno spruzzo di ironia e qualche buona ricetta: se c’è un santo che pare essere particolarmente utile a prevenire le nascite, ecco il paese delle donne trasformarsi in una chiesa a cielo aperto…
Si ride, si piange, si sta con infinita pena e altrettanta empatia dalla parte di Vittoria, ascoltando Saverio La Ruina illuminare questa vita del margine, sottoposta allo sguardo e alla legge dei maschi ma che, nella sottomissione, non trova soltanto la risorsa della pazienza ma anche la lucidità del giudizio. Finirà anche Vittoria su quel tavolo da cucina, sentirà quel ferro da calza frugare il suo corpo, ma non vorrà che quel destino, che per lei e per tante era già scritto e che ha solo interpretato come ha potuto e saputo, sia anche quello di sua nipote, figlia di figlia, rimasta incinta di un amore giovane. Per lei no, non quel tavolo, non quel ferro ma una clinica pulita, disinfettata, lontano, a Milano. Eppure se la scelta grande di Vittoria eviterà alla nipote sofferenza fisica, non sarà risparmiata anche a lei la fatica e lo sguardo giudicante: nell’Italia del 2010 e nonostante la legge, intuiamo essere ancora questa l’esperienza di molte, le donne giovani, le straniere le cui vite stanno dietro le statistiche sulle interruzioni di gravidanza. Chi invece, alla fine, avrà cambiato sguardo è proprio Gesù: a lui Vittoria ha porto, come un dono semplice e devoto, la possibilità di comprendere e di essere compresa.
C’è un uomo in scena, Saverio La Ruina, che insieme a Dario De Luca ha fondato nel 1992 Scena verticale e si ostina a fare teatro in Calabria, con un festival, Primavera dei Teatri, che lo scorso anno si è meritato il premio speciale Ubu. La Ruina aveva già sperimentato il monologo nel premiato e bellissimo “Dissonorata” e nuovamente solo in scena si ripropone in “La borto”: il suo saper trovare dentro di sè toni, gesti e misure di quest’anima femminile restituisce amplificata l’intensità di questo lavoro, oltre a far balenare una possibilità, che va oltre il teatro e che sembra assai preziosa, di un guardarsi di qualità differente tra donne e uomini.