Lettere a inGenere. Terre incolte per il terzo figlio

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Foto: Unsplash/ takahiro taguchi

La prima volta che ho sentito parlare della proposta in finanziaria di assegnare terre incolte alla terza gravidanza ero ferma al semaforo, alla fine di una lunga giornata tipo: accompagnamenti vari – lavoro - recupero dei figli - pianificazione appuntamenti e incastri futuri – preparazione pasti – lavoro. Mentre cercavo di schivare l’ennesima buca apertasi con l’ultima pioggia, mi sono ritrovata a pensare: “tranquilla, niente panico, ti stai avviando verso la menopausa, da un punto di vista statistico le probabilità di rimanere incinta per la terza volta tendono allo zero, rischi di ritrovarti contadina per te ce ne sono pochi. Respira. Respira.”

È incredibile il conforto che può offrire la matematica nelle situazioni di pericolo, anche quando sono solo calcoli probabilistici. Matematica e respirazione.

Eppure stavo iniziando a sentirmi male.

Mentre il respiro e la razionalità lentamente mi aiutavano a riprendere il controllo dei sudori freddi e a respingere la visione nefasta di me, fazzolettone in testa, (terzo) pupo/a legato/a nella fascia sulla schiena, intenta a zappare per estrarre patate microscopiche e mezze nere da un terreno sassoso (e in sottofondo la voce dello zio contadino della mia infanzia che diceva “veh, meglio che studi te, si vede che non c’hai il fisico”) ho iniziato a pensare che fosse uno scherzo, di aver perso la frequenza della mia radio solo musica rock anni settanta-max-ottanta e di essere finita su una di quelle trasmissioni che cercano di far ridere i pendolari stanchi a fine giornata.

Così appena arrivata a casa ho chiamato la mia amica super informata per sentirmi dire  no non è uno scherzo è tutto vero, e noi che ridevamo del fertility day. Quindi è così: la legge di bilancio 2019 prevede la possibilità di avere in concessione per un periodo minimo di 20 anni un terreno pubblico o abbandonato, possibilità accordata alle famiglie che avranno il terzo figlio nel triennio 2019-2021 e che si abbina alla possibilità di avere mutui agevolati per acquistare immobili nei pressi dei suddetti terreni.

Obiettivo del provvedimento: da un lato limitare lo spopolamento delle aree rurali (un problema reale), dall’altro incentivare la natalità (un altro problema reale, soprattutto se si continua a rallentare il riconoscimento della cittadinanza italiana a chi nasce e vive qui).

Ho ascoltato le spiegazioni della mia amica e, poi, ho cercato informazioni da fonti più autorevoli nel tentativo di capire il nesso logico, quali fossero gli studi, i precedenti, le previsioni sulla base delle quali sia possibile identificare un collegamento anche solo probabilistico tra la prospettiva di avere la disponibilità di un terreno “abbandonato” e l’incremento del desiderio o della propensione a metter su una famiglia numerosa.

E niente, non riesco proprio a collegare due problemi distinti – il progressivo spopolamento delle aree rurali e il calo demografico del paese – con una soluzione che cerca di metterli insieme mentre in realtà potrebbe creare maggiori problemi. 

E lo dico anche superando il naturale disagio che la campagna suscita in me: fare gli agricoltori, dedicarsi alla terra richiede competenze, capacità, volontà, progettualità, investimenti; farlo in terreni abbondonati, magari anche isolati, presuppone una scelta di vita molto forte che non necessariamente si abbina alla scelta di avere più figli.

Le ricerche ci dicono che sulla scelta di (non) fare figli pesano innumerevoli fattori: la sfiducia nel futuro, la precarietà del lavoro, il basso livello dei salari (di uomini e donne, ma soprattutto delle donne), l’assenza di servizi all’infanzia, la distanza dai propri genitori (che spesso, in quanto nonni, suppliscono all’assenza di servizi di cura), la discriminazione tacita o esplicita che le donne in quanto madri (o “madri in potenza” anche quando non vogliono/possono diventarlo davvero) subiscono sul luogo di lavoro (carriere più difficili se non vero e proprio mobbing), l’assenza di condivisione dei carichi di cura all’interno dei nuclei familiari (con uno squilibrio delle responsabilità di gestione e pianificazione a carico delle madri) e, soprattutto in Italia, una pressione culturale in termini di aspettative sulle madri che (ci) porta saggiamente a non incrementarne in modo esponenziale il peso (se sono percepita e descritta come una cattiva madre se non mi dedico al cento per cento all’accudimento di un figlio, quanto sarò una cattiva madre se non mi occupo in modo adeguato di due figli? tre figli? e/o di n figli?). A tutto questo si aggiunga che le scelte di genitorialità sono sempre scelte complesse, individuali o di coppia, in cui i fattori elencati si sommano, si specchiano (nei desideri delle persone coinvolte nel progetto) si incastrano con fattori oggettivi e sono solo marginalmente influenzati dalle scelte politiche, soprattutto delle politiche a breve. 

Il dibattito è ampio, le posizioni a volte discordanti ma in nessun caso noto la disponibilità di una terra (abbandonata) da coltivare rientra tra le variabili che condizionano la scelta. Al tempo del primo feudalesimo magari sì (sono preparata, l’ho appena ristudiato con mio figlio), ma non nell’Italia del 2018, la cui vocazione agricola è stata superata da tempo. Non risultano studi in tal senso. Magari si potevano anche commissionare, studi e ricerche, prima di decidere se investire in questa direzione, ma al momento non ci sono.

Ci sono progetti di recupero delle aree rurali, giovani che con coraggio tornano alla terra e si inventano progetti di riqualificazione ma questo non li porta ad aver voglia di fare molti figli.

Nel frattempo però, nella stessa legge di bilancio in cui si inserisce questa misura come sostegno alla natalità, ci sono provvedimenti che agiscono in modo negativo su quei fattori che gli studi ci dicono avere un impatto sulla propensione alla genitorialità: tagli agli investimenti nell’istruzione, taglio del congedo di paternità obbligatorio, progressiva riduzione delle detrazioni fiscali (spese per la mensa della scuola, le cure mediche, lo sport, i centri estivi), maggiore precarietà dei contratti di lavoro.

E, sul lato tutela delle aree rurali, diminuzione delle disponibilità ai comuni e assenza di investimenti per la tutela dell’ambiente, pur nella consapevolezza che in questi tempi di grandi cambiamenti climatici sono proprio le aree abbandonate ad essere maggiormente afflitte da catastrofi dovute all’incuria.

Quindi, il senso qual è?

Non voglio evocare, come già hanno fatto molti altri/e, la narrazione bucolico patriarcale né la mistica della natura che prevale sulla cultura che soggiace all’iniziativa (mi è bastato ripensare ai pochi giorni in campagna della mia infanzia per avere una manifestazione psicosomatica di piccole bolle verdi su tutto il corpo), a me basterebbe recuperare un senso logico tra l’iniziativa e le finalità che vuole raggiungere. Magari funziona, ma spiegatemi come potrebbe.

Ci provo, ma non ci riesco.

Alla fine, sforzandomi a lungo e solo perché sono una persona positiva, che tende a cercare comunque il lato buono delle cose, l’unico piccolo senso che ho trovato per questo provvedimento è che una proposta di legge che abbia come effetto di far pensare agli aspetti positivi della menopausa non è un provvedimento da sottovalutare, soprattutto per una popolazione in invecchiamento costante e in cui l’accettazione delle donne che invecchiano è ancora lungi dall’essere completa.

Gioia Maila